Storia di una notte d’estate

Sabato 21 luglio, ore 2,30 del mattino. La televisione è accesa su Rai News 24.

Prima notizia: “Il Ministro Savona è indagato per il reato di usura. Risposta del Governo: eravamo a conoscenza!”.

Penso: “Certo! Ve lo ha detto il Presidente Mattarella quando lo volevate fare Ministro delle Finanze! E vi siete costruiti la boiata delle posizioni anti euro per coprire la verità. Vabbene…”.

Seconda notizia: “Altra bufera su Trump: pagava l’appartamento ad una ragazza con cui intratteneva una relazione!”. E qua mi chiedo: qual è la notizia?

Da uno che ha costruito un impero sulla mercificazione del corpo delle donne e ha esportato il “prodotto” in tutto il mondo e oggi parla di dazi come se non avesse considerato per tutta la vita le donne “merci”, oggetto da mettere sul mercato cosa ci si può aspettare di diverso? 

E poi, il solo fatto che vada in giro con i capelli pittati di giallo per non correre il rischio che qualcuno non riconosca la presenza del Presidente degli Stati Uniti d’America, soprattutto i bambini messicani che ha tolto alle madri per metterli in carcere, mi fa ribrezzo.

Terza notizia: “Si è riunita la Commissione Europea per discutere dei migranti. L’argomento è stato rinviato. Salvini esulta: gli altri Paesi europei hanno accettato la redistribuzione. Ospiteranno 30 migranti ma i nostri porti restano chiusi!”.

Qua, inizi ad innervosirti perché ti senti preso per i fondelli.

Non c’è organo di informazione che non parli di migranti, dedicando ampi spazi televisivi e prime pagine dei giornali perché tutti ci dobbiamo convincere che è veramente un problema.

Stanno ammazzando centinaia di persone al giorno senza sparare un colpo: questo è un problema!

Se nel deserto o nel mare o sulla via balcanica non fa differenza: anche se non sparate siete assassini!

Sabato 21 luglio, ore 3,30 del mattino. Nauseato spengo la televisione ma rimane acceso il cervello.

Inizio a riflettere sul fatto che la comunicazione ha tagliato fuori interi pezzi del pianeta: sarà perché non bussano alla porta di casa?

Se non le vai a cercare, non ti capitano sotto mano, per esempio, notizie sui Paesi sudamericani.

E i pensieri iniziano a girare come fossero diventati un vortice fino a maturare una riflessione sugli atti quotidiani abituali: io leggo i giornali partendo dall’ultima pagina e lo faccio da sempre o, meglio, da quando un anziano compagno del Partito mi spiegò che nelle prime pagine scrivono cose che già sai.

E lo faccio anche con i libri: leggo prima le conclusioni e poi il resto per capire come è arrivato lo scrittore a quelle conclusioni.

Sabato 21 luglio, ore 4,30 del mattino. Finalmente ho sonno e dormirò con la convinzione che una delle battaglie da fare è insegnare alle persone la differenza fra sentire e ascoltare, leggere o leggere per capire.

Il profumo di un libro

Saikou, diciotto anni, guineano

«Il mio sogno: studiare, stare fra banchi di scuola e libri che odorano di stampa». Invece, una vita fatta di corse e fughe. «Non ho genitori, un solo fratello, che un giorno spero di riabbracciare». Mali, Burkina, Niger e Libia. «Rinchiuso, picchiato per tre mesi, poi uno spiraglio, il viaggio in mare, l’Italia…»

Saikou, diciotto anni, arriva dalla Guinea. Due anni fa. Spinto da «motivi familiari», dice. Lui che non ha famiglia, se non un fratello, un anno più grande di lui. Viene da una terra in eterno conflitto, sanguinosi scontri etnici. «Io e Moumo, questa è la mia famiglia: non abbiamo genitori, fin da piccoli ci è toccato farci strada da soli». Il suo viaggio verso l’Italia non è semplice. Dalla sua Guinea passa attraverso uno, due, tre stati. Arriva in Libia, trascorre più tempo sottochiave in un locale, la sua prigione. Lo ha stabilito una banda di civili, armata, che intercetta migranti in fuga. Saikou, come altri, viene picchiato a prescindere. Che alzi lo sguardo, chieda di andare in bagno. Fosse per lui, respirerebbe l’aria dei campi nei quali spezzarsi anche la schiena, ma mettere in tasca soldi buoni per pagarsi il viaggio su un gommone verso l’Italia.

A Saikou piace studiare. E’ stato sempre affascinato da libri e banchi di scuola. «Non abbiamo potuto permetterci – spiega – questo stile di vita; mio fratello ha perseverato, ha seguito il suo istinto: prova a fare il commerciante, non che abbia chissà quali risorse, ma cerca di mettersi in tasca spiccioli vendendo scarpe e borse; non è sempre facile farcela, la gente nel mio Paese piuttosto che farsi una borsa o un paio di scarpe nuove, preferisce mettere risparmi da parte nel caso andasse peggio di quanto non stia andando da tempo».

Storie B 02

GUERRA ETNICA, LA VITA E’ UN INFERNO

Conflitti etnici, focolai ovunque. Dalle prime luci del mattino è un «Si salvi chi può!». E chi può farlo, salvarsi, non avendo tanti legami familiari, si dà coraggio. Prepara uno zainetto per spingerci dentro l’essenziale e quella rabbia che monta da bambini. «Quando ti guardi intorno e non senti la protezione di un genitore, ti tocca crescere in fretta: non hai tempo per pensare, qualsiasi decisione devi averla già presa; non è consigliabile girarsene da soli per strada, può succedere di tutto: un uomo fuori controllo ti sferra una coltellata; una pallottola vagante, parte da un fucile che un ragazzino sta pulendo e ti centra in piena fronte».

Sciagure tanto al chilo in ogni angolo di strada. Per questo, Saikou, un bel giorno, blocca per pochi istanti il fratello che sta andando ad aprire quella piccola attività che a malapena li sfama. «Moumo – gli ho detto – non è il momento di farsi venire rimorsi, parto, vado via: la nostra è una brutta vita, una speranza ridotta al lumicino, non me la sento di continuare a vivere in queste condizioni».

Parla chiaro Saikou, nonostante i suoi sedici anni. Perché il giovanotto dal sorriso contagioso, un capo cosparso di riccioli, da due anni risiede in Italia. «Grazie all’aiuto e alle indicazioni del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme” – racconta – ho realizzato il mio primo sogno: frequentare una scuola vera, il “Pacinotti”: è lì che un giorno dopo l’altro sto imparando a parlare e scrivere l’italiano, non senza qualche difficoltà, ma i professori – tutti bravissimi e pazienti – mi incoraggiano, dicono che con l’impegno che metto tutti i giorni, i primi risultati arriveranno».

Storie B 05

CORSO DI SALDATORE, MAGAZZINIERE QUANDO CAPITA…

Fa progressi. L’italiano lo comprende, meglio se quando qualcuno gli parla scandendo le parole. «Non mi sono fermato ai libri, anche se adoro leggere: quando ero piccolo e sognavo di diventare uno di quei professoroni che si vedono in tv, con tanto di occhiali, sapevo che le pagine dei libri dovevano avere un profumo speciale; sfogliare e leggere resta la mia passione, ma devo fare i conti con la realtà, allora sto imparando un mestiere: ho fatto un corso da saldatore, hai visto mai in un cantiere cercassero uno che abbia quel brevetto e mi chiamano».

Due sogni in uno, da quando Saikou è in Italia: “letterato” e saldatore professionale. «Voglio trovare un posto di lavoro, non dico fisso – quello so perfettamente che, oggi, somiglia più a un miraggio – ma costante; poi spetterà a me dimostrare l’impegno, e non necessariamente da saldatore: in attesa di un impiego che mi dia una certa sicurezza, ho trovato un’occupazione saltuaria, un datore e compagni di lavoro splendidi: faccio il magazziniere in un’attività della provincia tarantina, mi trovo alla perfezione, mi chiamano quando c’è lavoro e per questo li ringrazierò sempre».

Storie B 09

IL DITO E LA PIAGA

Il dito nella piaga, gli chiediamo del viaggio. Vogliamo avvicinare chi ci legge al mondo di un ragazzo africano che ha buona volontà e voglia di riscatto. «Parto dalla Guinea, entro in Mali, poi Burkina e Niger, anche se la mia idea di partenza è una sola: la Libia; lì c’è lavoro, modo di mettere insieme quei soldi – pochi o molti, chi può saperlo alla partenza – che mi permettano di pagarmi il viaggio verso l’Italia».

Ma la Libia, che da lontano vale un Perù, tanto dà l’idea di ricchezza, purtroppo non è così affascinante. «Cinque in quel Paese, tre imprigionato, ostaggio di una banda armata; fermato, più che arrestato: mi chiesero subito se avessi soldi, solo in quel caso mi avrebbero lasciato andare: non avevo un centesimo, così cominciò la mia tortura quotidiana; “Non hai parenti che ti mandino soldi?” e io, “Non ne ho, sono fuggito per fame!” e giù botte, ma di quelle vere».

Un sorriso amaro spunta sulle labbra di Saikou, quando gli chiediamo uno dei tanti motivi che spingevano questi aguzzini a colpirlo con la canna di un fucile alla testa o un calcio in pieno viso. «Non c’è mai un motivo – scuote la testa, stupito della domanda – quando quella gente decide di colpirti; lo fa per il gusto di provocarti una ferita: quella, secondo loro, aiuta a ricordarti che hai un debito con loro e che la tua vita è nelle loro mani».

Storie B 08

TRE MESI DI TORTURA, NON AVEVO SOLDI

Dopo tre mesi di torture, uno spiraglio. «Un signore – il Cielo lo assista, ovunque lui sia – ha bisogno di un aiuto, mi riscatta e mi porta con sé: per lui ho lavorato due mesi, in campagna, ad accudire animali».

Due mesi di lavoro, lo spiraglio diventa un raggio di sole. «Quel signore in qualche modo mi premia, mi mette a bordo di un furgone nel quale ci sono altri che hanno la mia stessa destinazione, il porto di Tripoli; dopo quattro ore di viaggio, vedo tanta gente, duemila, forse tremila persone; tante imbarcazioni sulle quali saliamo quasi a casaccio, la cosa principale da fare è liberare al più presto la spiaggia». Arrivano a largo, avvistano una nave militare italiana, salvi. «Saliamo a bordo, ci assistono e ci accompagnano direttamente a Taranto; io e poche decine di ragazzi restiamo qui, altri vengono assegnati ad altre destinazioni».

Lo studio, il profumo dei libri, un mestiere fra le mani. «Mi piace la gente, il rispetto, dovessi trovare un lavoro vero qui in Italia, mi piacerebbe un giorno tornare in Guinea, riabbracciare mio fratello…».

«Siamo tutti uguali!»

Sow Ibrahim, in arte “Manby Kapororail”, professione cantautore

“Bianco, nero, giallo, nero, nero”, un inno all’uguaglianza. «L’idea mi è venuta in mente mentre ero su un barcone: se mi salvo la scrivo, mi ripromisi; sogno di fare l’artista per mestiere, risparmio per produrmi un mixtape e un videoalbum». L’autore del tormentone dell’estate, spinto dalla web radio di Costruiamo Insieme. Fuga dalla Guinea, due anni in giro per l’Africa, infine l’Italia.

Manby 3

«Tanti colori di facce perdute, forti profumi di pelli sudate; lingue mischiate, trecce di razze, mille speranze, sogni infiniti; tutti stretti dentro “Zodiac”, grande barcone, sul grande mare…». E’ l’inciso del tormentone dell’estate, “Bianco, nero, giallo, nero, nero”, che ha trovato sponda sulla web radio di Costruiamo Insieme. Protagonista di questa esplosione musicale estiva è Sow Ibrahim, guineano, venti anni. In queste settimane è noto allo sterminato popolo del web come Manby Kapororail. Potete rintracciare lui e la sua canzone più popolare anche sul suo profilo Youtube. Lì, in mezzo, altre sue creature, canzoni scritte prima che arrivasse in Italia. Altre prova a scriverne in queste settimane.

Appena venti anni, una immagine da artista, cappellino e occhialoni da sole, a Sow la folgorazione per la musica arriva relativamente tardi. «A quindici anni – racconta – dopo aver ascoltato tanta musica giamaicana, mi sono detto di provare a passare dall’altra parte, cioè a scrivere canzoni, dopo avere imparato a suonare».

La chitarra il suo primo strumento. «Non la suono da rockstar, intendiamoci: come dite voi in Italia, “la strimpello”; ma quegli accordi imparati da solo mi aiutano nelle composizioni, perché non ho scritto solo questa canzone, ne ho composte e cantate altre; ne sto preparando di nuove…».

Manby 8

“BIANCO, NERO, GIALLO, NERO, NERO”

Di solito, in Italia, l’intervista al cantautore comincia con una domanda banale, ma essenziale, tanto per chi vuole raccontarti, quanto per chi vuole conoscerti. Dunque, cosa ha ispirato la scrittura di questa canzone. «Il viaggio che ho compiuto insieme con tanta altra gente dalla Libia in Italia – racconta Sow – mentre ero in mare mi sono fatto una promessa: volesse il Cielo e io e i miei compagni di viaggio dovessimo salvarci, scriverò una canzone: le parole sono venute fuori da sole; durante il viaggio verso un futuro migliore rispetto a guerre e rappresaglie quotidiane dalle quali ognuno di noi fuggiva, ho osservato tutto quello che stava accadendo dentro e intorno alla mia anima: ero una spugna, assorbivo disperazione, paura, speranza di tutta quella gente, sensazioni identiche alle mie. Così mi sono detto e ripetuto: se arrivo in Italia, scrivo questa canzone, tante facce che hanno un solo colore, quello dell’uguaglianza».

Parte dalla Guinea, Sow. «Un viaggio durato due anni, passando attraverso una decina di Stati e Regioni: Mali, Togo, Benin, Niger, Algeria… Infine la Libia: se mi chiedessi quanto tempo sono stato lì posso solo azzardare un periodo, due mesi forse; perdi il controllo dei giorni, ti mettono sottochiave in una casa, al mattino aprono, ti consegnano a qualcuno che ti fa lavorare, la sera, stanco, vieni riconsegnato ai sorveglianti e richiuso in casa».

Manby 10

LIBIA, DOVE NON SAI QUANTO TEMPO PASSA…

Bande di malfattori approfittano della disperazione. «Non hai soldi per riscattare la tua libertà, ti picchiano; provano a metterti in contatto con i tuoi familiari, perché possano mandare i soldi per il tuo riscatto; quando dici che i tuoi familiari non hanno danaro, comincia la paura, la tensione: se ti va bene, sei giovane, hai forza nelle braccia, ti trovano un’occupazione; se ti va male, ti picchiano furiosamente, a sangue e si liberano di un peso: così risparmiano una fetta di pane e una razione di acqua al giorno».

Sow, ha fatto diversi lavori. «Tutto quello che c’era da fare: bracciante, muratore, addetto a qualsiasi tipo di pulizia; non mi sono fatto problemi; mi dicevo: più lavoro, più guadagno e prima parto; diciamo che più lavoravo, meno guadagnavo, mi sbattevo ma i soldi erano sempre pochi; poi, un giorno, quei pochi che avevo messo da parte sono stati sufficienti per chi stava organizzando un viaggio in mare: non so se i miei “custodi” si fossero mossi a commozione o avessero le tasche piene di me, ma un giorno spalancarono la porta di quella “casa” e mi indicarono l’uscita; sul barcone, lo Zodiac, l’ispirazione di “Bianco, nero, giallo, nero, nero”: se mi salvo, la scrivo…».

Manby 5

LA MUSICA, PIU’ DI UN SOGNO

Cantautore non tanto per caso. La musica è il suo sogno, lo coltiva con la sua giovane età e qualche risparmio scaturito da lavoretti saltuari. «Voglio continuare, ho un canale Youtube sul quale ho messo le mie prime canzoni, compresa “Bianco, nero, giallo, nero, nero”; ne ho una inedita, ma non la pubblico ancora, tante volte a qualcuno venisse in mente di soffiarmela». E’ sveglio, Sow, conosce a fondo il “sistema”. Idee chiare. «Prima un mixtape – spiega, sfoggiando conoscenza dello strumento comunicativo – con sei canzoni, inedite: due in italiano, due in inglese e due in francese; poi un sogno più articolato, costoso, posto che i soldi dovrò metterceli io, di tasca mia, a meno che non trovi un produttore: a proposito, c’è un produttoreeee?».

Scherza il giovane cantautore guineano. Svela il secondo “passaggio”. «Una volta fatti un po’ di soldini proverò a realizzare un album video: spero mi aiuti “Costruiamo Insieme”, sarebbe la seconda volta che lo fa. Anzi, la terza: prima con l’avermi ospitato nel Centro di accoglienza a Modugno; oggi, la seconda, con la sua web radio che passa la mia intervista e il mio brano nel frattempo diventato popolare: citare la cooperativa nella canzone era il minimo che potessi fare per ricambiare tanta attenzione e ospitalità; la terza occasione con Costruiamo Insieme: se un domani mi trovasse un produttore, bastano poche centinaia di euro per realizzare videocanzoni e lanciarle, una per volta, sul web».

Infine, un artista italiano del quale aprirebbe volentieri un concerto. «Uno solo? Sono pronto, disponibile, finalmente libero!».

Bancarotta dell’umanità

Avevo iniziato a scrivere sulla differenza di prospettive che orienta le coscienze alla luce dei fatti degli ultimi giorni e i miei campi di ricerca sono sempre (e rimarranno) la strada, i luoghi di ritrovo, casa mia.

Si, casa mia, per capire quanto riusciamo ad incidere realmente sulla capacità di riflessione e di lettura degli eventi.

Risultato: nessuna reazione emotiva di fronte alle tante persone lasciate per giorni sulle navi, incarcerate e condannate senza processo, respinte come si fa quando metti il veleno davanti alle porte per impedire l’ingresso agli scarafaggi. Nessuna reazione neanche di fronte ai corpicini inanimi che indossano la maglietta rossa per essere maggiormente riconoscibili sui gommoni.

Di contro, tutti attenti a seguire le sorti dei ragazzi rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia!

Non che sia brutto, sia chiaro, ma fa riflettere sul concetto di “distanza”.

Adozioni a distanza”, “gli aiutiamo nei Paesi loro”…..

Insomma, l’importante e che non metti piede in casa mia!

Per non raccontare di tutti gli sfottò subiti durante tutta la settimana!

Uno per tutti: “Con tutta la carne che c’è sul fuoco, scrivi un libro o il Domenicale?”.

Non faccio nessuna delle due cose! Anzi faccio due cose: ringrazio il Presidente della Repubblica Mattarella sperando che non rimanga in solitudine nel tentativo di arginare questa deriva indecorosa, immorale e … (lascio perdere!), e voglio dare spazio alla voce di un amico, Alex Zanotelli, con il quale condivido l’incapacità di tacere, di non vedere, di girarsi dall’altro lato.

Foto DOMENICALE articolo 02 - 1

UN “DIGIUNO DI GIUSTIZIA” IN SOLIDARIETA’ CON I MIGRANTI.

Avete mai pianto, quando avete visto affondare un barcone di migranti?” così Papa Francesco ci interpellava durante la Messa da lui celebrata a Lampedusa per le 33.000 vittime accertate (secondo il giornale inglese Guardian che ne ha pubblicato i nomi) perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della “Fortezza Europa”.
È il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa, e dei suoi ideali di essere la “patria dei diritti umani”. La Carta della UE afferma: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata”.
È un crimine contro l’umanità, un’umanità impoverita e disperata, perpetrato dall’opulenta Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta.
Un rifiuto che è diventato ancora più brutale con lo scorso vertice della UE dove i capi di governo hanno deciso una politica di non accoglienza. Anche l’Italia, decide ora di non accogliere, di chiudere i porti alle navi delle ONG ed affida invece tale compito alla Guardia Costiera libica, che se salverà i migranti, li riporterà nell’inferno che è la Libia. Perfino la Commissione Europea ha detto: “Non riportate i profughi in Libia, lì ci sono condizioni inumane.”
Per questo stiamo di nuovo assistendo a continui naufragi. L’ONU parla di oltre mille morti in questi mesi.
Papa Francesco ha fatto sue le parole dell’arcivescovo Hyeronymous di Grecia pronunciate nel campo profughi di Lesbos: “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi, è in grado di riconoscere immediatamente la “bancarotta dell’umanità”.
È il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: “Ero straniero… e non mi avete accolto.” Noi chiediamo a tutti i credenti, di reagire, di gridare il proprio dissenso davanti a queste politiche disumane.

Noi proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al Parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse che provoca la morte nel deserto e nel Mediterraneo di migliaia di migranti.
“Il digiuno che voglio – dice il profeta Isaia in nome di Dio – non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo senza trascurare i tuoi parenti ?”.

Padre Alex Zanotelli

«Ricomincio a vivere»

Solomon, nigeriano, trentacinque anni

Padre assassinato da una gang di malfattori, nessun colpevole assicurato alla giustizia, fugge per evitare ritorsioni su moglie e figli. «Voglio riabbracciare i miei cari al più presto: voglio lavorare e non elemosinare. In Libia, giardiniere e addetto alle pulizie, ho racimolato i soldi per pagarmi il viaggio verso la libertà. Dopo sette ore di mare, una nave militare italiana…» 

A FOTO STORIE 01

«Papà, aggredito e accoltellato, ci muore fra le braccia: gli assassini fuggono, la vita della mia famiglia cambia di colpo!». Non c’è tregua in certe zone della Nigeria, impera la legge del più forte, gang organizzate, e quella di balordi che di lavorare non vogliono saperne. Questa è la storia di Solomon, trentacinque anni, fisico da granatiere, uno che non si tira indietro di fronte a nulla. Di sani principi, non trascina giornate dall’alba al tramonto senza far niente. «Non chiederei mai l’elemosina – dice – non rientra nello schema educativo che mi hanno trasmesso mia madre e mio padre». Solomon, non una, ma due famiglie. Una patriarcale, con a capo il genitore, che si prenderà cura dei suoi figli fino a quando non gli viene inferto un colpo con una lama che lo strapperà per sempre all’amore dei figli; l’altra, la sua, moglie e quattro figli.

«Ho assistito mio padre – racconta – gravemente malato, come ho potuto, trascurando anche il mio lavoro di meccanico, riparavo moto; il mio genitore doveva essere seguito da mattina a sera, la malattia lo stava indebolendo, anche se riusciva a fare le cose più importanti in modo autonomo; avevo già perso mia madre per una malattia simile, una di quelle che dalle nostre parti sembrano incurabili e, invece, potrebbero essere debellate – esagero – con un’aspirina; è così che va dalle nostre parti, nonostante sia nato a Benin, una città, una capitale di uno Stato della Nigeria, Edo: non c’è assistenza sanitaria a sufficienza, così i casi estremi da malattie diventano numeri».

Famiglia numerosa. «Ho quattro fratelli, rimasti tutti a casa, papà aveva cura di noi tutti: non è che navigassimo nell’oro – altrimenti avremmo affrontato cure costose – ma vivevamo bene, per come può essere una vita serena dalle nostre parti; quando si è ammalato sono cominciati i problemi, lavoravo, ma dovevo stargli accanto, così trascuravo la mia attività di meccanico; poi il suo assassinio, gente senza scrupoli o qualcuno fuori controllo che sentenzia la tua condanna».

A FOTO STORIE 04

Niente più genitori, resta la sua di famiglia. «Sono sposato – rivela Solomon – mia moglie e i miei quattro figli, due ragazzi e due ragazze, fra i quindici e i tre anni, sono rimasti a casa, a Benin: ci sentiamo quando è possibile, ogni volta è una forte emozione, sentirli tutti insieme è un’impresa: il costo di una telefonata è elevato, oggi non posso proprio permettermelo».

Motivo della fuga. «Le continue rappresaglie – spiega – fronteggiare gang prive di scrupoli e che agiscono con una polizia praticamente assente; reagiresti anche, ma poi rischieresti la tua vita e, soprattutto, quella dei tuoi cari; così sette mesi fa sono partito senza una precisa meta, l’obiettivo quello di provare a ricostruirmi altrove una vita decorosa e, appena possibile, tornare a casa, ma solo per riprendermi moglie e figli e portarli via con me»

L’arrivo in Libia. «In questo caso, posso ritenermi fortunato – osserva Solomon – non sono vittima di bande di sequestratori che ti prendono in ostaggio e ti svuotano le tasche, ti affidano a persone che ti danno lavoro e riscuotono i soldi al tuo posto; no, a me, nella sfortuna posso ritenermi fortunato: non mi tiro indietro quando c’è da prendere fra le mani attrezzi da lavoro; in Libia faccio di tutto: mi spendo nei campi, mi occupo di giardinaggio e pulizia; faccio di tutto per mettere da parte i soldi necessari per pagarmi il viaggio verso l’Europa; raggiungo una discreta somma e contatto, facendo molta attenzione agli interlocutori – le aggressioni sono all’ordine del giorno – qualcuno che mi metta su un gommone».
A FOTO STORIE 06

Finalmente Solomon vede il mare, lacrime di gioia. «La vista di questa distesa azzurra – confessa – è il tuo senso di liberazione, pensi a quanto accaduto e cominci ad accarezzare un senso di riscatto e futuro insieme: quello che è stato, quello che potrebbe essere, con mia moglie e i miei figli».

Il trentacinquenne nigeriano è a un passo dal primo gradino verso il riscatto. «Arrivo in spiaggia, finalmente l’imbarcazione, un gommone che potrebbe ospitare trenta, quaranta persone: siamo invece in centocinquanta, ma anche qui fortunatamente non mi hanno truffato: mi hanno parlato di un viaggio verso l’Italia e così è fino a quel momento; salpiamo non senza difficoltà, spingiamo il gommone con l’acqua fino al petto e, infine, a bordo». Ci vuole poco a restituire sorriso e speranza a Solomon, saggio, maturo, un carattere plasmato con quanto visto nel suo Paese. Luck, fortuna, è una parola che a dispetto di quanto accadutogli, tira fuori alla prima occasione. Come è stato in Libia, così una volta imbarcato in quella “scatola di sardine”. «Fortuna, sì, dopo aver salpato ci troviamo in mare aperto, come se fosse una lotteria: cosa può accaderci? Solo sette ore di mare, quando una nave militare italiana ci avvista e ci viene incontro: sani e salvi, da due mesi sono in Italia, ospite di un Centro di accoglienza; voglio lavorare, studiare, frequentare uno di quei corsi di formazione, trovare una sistemazione, anche minima, per poter riabbracciare moglie e figli e ricominciare a vivere».

«Migranti, non generalizziamo»

Tony Cannone, consigliere al Comune di Taranto

«Africani che si spingono sulle nostre coste per necessità. L’Italia non deve essere l’unica a farsi carico della speranza di migliaia di profughi. Possono però diventare la nostra forza-lavoro». Attività politica. «Contatto costante con il territorio e un sito nel quale mi confronto con i cittadini, tutti, non solo i milleduecento che mi hanno votato»

 «La gente che arriva dall’Africa e sbarca in Italia in cerca di una vita decorosa, va aiutata, può seriamente diventare la forza-lavoro del domani». Tony Cannone, consigliere comunale e provinciale con il movimento “Taranto nel cuore” e vicepresidente del Consiglio comunale, ospite negli studi di Costruiamo Insieme manifesta il suo punto di vista sul tema dell’accoglienza. «Naturalmente, l’Italia non deve essere l’unico Paese nel bacino del Mediterraneo a farsi carico dei flussi migratori; detto questo, a torto si generalizza sugli sbarchi che introdurrebbero nel nostro Paese solo malviventi: sbagliato, c’è, infatti, tantissima gente che viene in Italia spinta da motivi di sopravvivenza, desiderosa di rendersi utile volendo stare nel perimetro della legalità; dobbiamo fare il possibile per aiutare chiunque abbia voglia di spendersi per l’Italia; allo stesso tempo, dobbiamo fare attenzione, non abbassare la guardia nell’individuare quanti approfittano dei viaggi della speranza dei propri connazionali per compiere loschi affari una volta giunti sul nostro territorio».

Cannone, consigliere comunale, come si sta all’opposizione in modo ragionato, senza ricorrere alle urla, ad azioni di disturbo?

«Non sono mai stato per un “no” a prescindere: se il mio impegno è per il bene comune della città, non posso attaccare un’Amministrazione che in alcuni punti del suo programma manifesta le stesse intenzioni dello schieramento che rappresento; detto questo, però, dobbiamo anche ricordare il ruolo che ogni consigliere dovrebbe avere all’interno del Consiglio comunale, delega assegnataci dai cittadini: dobbiamo pertanto agevolare e non complicare la vita dei tarantini»

Articolo 05

Vicepresidente del Consiglio comunale, un attestato di stima.

«La nomina a vicepresidente la considero tale per la mia attività politica svolta in questi anni, con una presenza costante in Consiglio e nelle Commissioni: per questo, al momento della nomina, mi sono sentito lusingato; se qualcuno ha pensato per un attimo che questo fosse un contentino, ha preso una cantonata: sarebbe un insulto all’intelligenza di chi, invece, ha indicato il sottoscritto l’impegno profuso in questi anni con un confronto politico svoltosi sempre con lealtà e rispetto».

Uno dei consiglieri più votati, il percorso politico.

«Dopo una prima elezione a consigliere comunale, ai cittadini feci una solenne promessa: nel caso fossi eletto, non sparirò come è abitudine di qualche personaggio prestato alla politica: non dismetterò il comitato elettorale, creerò piuttosto un punto di incontro: nella sede di viale Magna Grecia svolgo infatti un costante confronto con la gente; tutta, non solo quanti mi hanno onorato della loro scelta: un consigliere comunale ha l’obbligo di sentire chiunque; così tutte le sere, dopo il Consiglio, le Commissioni, il mio lavoro pomeridiano, incontro amici e gente interessata a un confronto sereno sui problemi della città: mai fuggito davanti alle mie responsabilità, lo testimoniano presenza e impegno costanti in Comuene, Provincia e all’interno delle Commissioni; avere milleduecento voti con il movimento “Taranto nel cuore”, dunque senza un soggetto politico alle spalle, la ritengo una grande soddisfazione».

 Articolo 04

Fosse andato in giunta, quale assessorato le sarebbe piaciuto ricoprire?

«Non nascondo che mi sono posto questa domanda; la mia storia professionale comincia con il ruolo di educatore di portatori di disabili, cui segue l’impegno all’interno di quella che un tempo veniva chiamata “Anffas”; sono successivamente passato all’interno dei ruoli Asl, occupandomi di tematiche minorili, ricoprendo per dieci anni il ruolo di giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Taranto; va da sé che la mia logica collocazione sarebbe stata quella ai Servizi sociali».

Taranto, industria, turismo, futuro.

«Non riusciamo ad allontanarci dalla logica dell’acciaio, un concetto dal quale difficilmente questa città riuscirà a smarcarsi; il nostro futuro potrebbe chiamarsi turismo, porto, viste le enormi potenzialità che il territorio offre in queste due direzioni; il porto, purtroppo, è ancora un esempio di immobilismo: potrebbe funzionare come alternativa alle logiche dell’industria siderurgica, invece si temporeggia, un esempio fra gli altri: si perde tempo per effettuare i dragaggi che consentirebbero l’accoglienza di navi dal carico importante. Ma Taranto è questa, lenta, pigra, quando ci vorrebbe poco per imprimerle una svolta per ripartire con un futuro più sereno e meno inquinante, in tutti i sensi».

Arriva Francesco!

Fra buon senso e senso comune per fare chiarezza, arriva Francesco!

La scelta di Papa Francesco di organizzare a Bari un momento di incontro e di riflessione non ha nulla di casuale, perché anche i luoghi, attraverso la loro storia e la simbologia, contribuiscono a creare scenari stimolanti per approfondire temi e produrre proposte e risposte a situazioni non più rinviabili.

E lo fa in un periodo particolare, l’estate, in una situazione socio-politica europea e mondiale poco rassicurante a pochi metri dal mare portando dentro la casa di Nicola il messaggio di Francesco.

Una immagine bella con un significato profondo in un momento in cui il “senso comune” prevale in maniera preoccupante sul ”buon senso”.

Tutto gestito con un protocollo che non ha lasciato spazio alla spettacolarizzazione dell’evento: l’unica lettura che riesco a dare a questa scelta la trovo dentro una reale e profonda preoccupazione di un Papa che sente i brividi prodotti dagli scenari che stanno prendendo forma.

Qualche tempo indietro, si provava almeno un senso di vergogna a respingere donne, bambini, uomini che fuggono dalla guerra o dalla fame o costretti a spostarsi dai quei cambiamenti climatici che hanno prodotto quella desertificazione che era funzionale agli interessi dei capitali occidentali.

E non esiste un cittadino barese che non abbia chiaro nella memoria l’approdo della nave Vlora: quella che in televisione sembrava una grande invasione venne vissuta dalla città come una grande festa dell’accoglienza.

I protocolli vaticani hanno tempi lunghi. Se Papa Francesco convoca a Bari, a casa di San Nicola (anche lui arrivato dal mare) i referenti di tutte le fedi religiose e tutto viene organizzato in tempi brevissimi, qualcosa vorrà dire.

Se poi diventa una sorta di conclave ristretto e chiuso, fatto da un Papa come Francesco che ama stare fra la gente, aggiunge qualcosa di più per far pensare che è seriamente preoccupato.

Arrivando in elicottero si sarà accorto che il mare ha iniziato a cambiare colore e uno come lui cresciuto sporcandosi le mani nelle viscere della miseria e della povertà estrema non lo freghi dicendo che è semplicemente un processo chimico: certo, si, è un processo chimico prodotto dall’incrocio fra il sangue umano e l’acqua del Mediterraneo!

Mancano sulle spiagge i cartelli: “Attenti, quando tornate a casa, sotto la doccia, usate un pò più di sapone. Le malattie trasmissibili arrivano soprattutto dal sangue e il nostro mare è pieno!”.

Una bella strofinata e lavi tutto, anche la coscienza!

Tanto non è tuo figlio quello che devi mettere su un gommone con la maglietta rossa per essere più riconoscibile in mare aperto, magari nel pieno della notte.

Grazie Francesco per quello che stai facendo per ricondurre i Governanti sulla strada del buon senso!

Parole del Santo Padre a conclusione del dialogo

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/july/documents/papa-francesco_20180707_visita-bari-conclusione.html

PS: domenica prossima vi racconto cosa mangiano i pesci che mangiamo!

«Un futuro da chef…»

Kevin, nigeriano, diciannove anni, un sogno dopo tanta sofferenza

 «Ogni notte penso a quella divisa bianca sulla mia pelle nera: mi starebbe a pennello». Poi racconta la fuga. «Un’odissea, perseguitato da familiari, preso a bastonate, solo perché dicevano che avevo un’anima negativa». Infine la scelta. «Scappai dal mio villaggio, fui prigioniero quattro mesi a pane e acqua in Libia, infine il viaggio per l’Italia…» 

Storie 06

«Problemi familiari, di quelli seri, perseguitato da una setta della quale facevano parte anche parenti, perseguitato, fatto oggetto di sortilegi e preso a bastonate!» . Kevin, nigeriano di diciannove anni, fede cristiana, da un paio di anni Italia, mostra una brutta cicatrice su un braccio. «Questo lo devo ai miei familiari che di colpo hanno cominciato a scagliarsi senza un motivo contro di me: non ne facciamo un mistero, vivevo in un villaggio, non in una cittadina, e lì vale la legge del più forte, ma anche una certa ignoranza; a noi giovani che leggiamo, usiamo internet, ci documentiamo, certe cose al giorno d’oggi fanno sorridere: intanto accadono, in certe persecuzioni finisce anche peggio, altro che cicatrice».

Kevin è in Italia da due anni, comprende l’italiano, studia. Oggi ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo insieme”. «Ho lasciato a malincuore – riprende – il mio Paese, salutato papà, mamma e una sorellina: sono stati loro stessi a spingermi a lasciare il villaggio, le cose si stavano mettendo male, mio padre assistendo continuamente a un inspiegabile accanimento nei miei confronti – secondo loro ero un’anima “negativa” – prima o poi si sarebbe compromesso, allora per evitare una conclusione più drammatica, ho preferito andare via, scappare – brutta parola – nonostante non avessi fatto niente».

Dice addio alla terra in cui era nato, Agbor. Questo il nome del suo villaggio. A voce non molto comprensibile, prende carta e penna e lo scrive. Stampatello, una calligrafia invidiabile. Si vede che ha studiato e questo è un altro elemento che proprio non gli va giù. «Pensavo di farmi strada e affrontare la vita dopo aver studiato a lungo: mi è stato impedito nel modo peggiore che potesse esistere, cacciato da gente che non sa neppure cosa sia un libro, figurarsi leggere, comprendere cosa sia la filosofia».

Storie 01

APPENA DICIASSETTE ANNI…

A diciassette anni Kevin conosce il massimo dell’accanimento. «Non c’era giorno – ricorda – che a turno non venissero a cercarmi: mi circondavano, mi minacciavano prima a parole, poi passavano alle vie di fatto, spintoni, mi colpivano con pugni o qualsiasi altra cosa raccoglievano da terra, rami che usavano come una frusta, bastoni che usavano per infliggermi legnate: è in una di queste sciagurate spedizioni che mi picchiano per lasciarmi sanguinante, steso e raccolto nel mio dolore; dovevo andare via, lasciare la mia terra, quella piccola casa era diventata un presidio di “primo soccorso”, mia madre e mio padre i miei infermieri; così un brutto giorno mio padre mi prese in disparte, lontano da mia madre, per dirmi che era giunto il momento di mettermi in salvo, a lungo andare ci avrei lasciato la pelle: quel gesto e quelle parole mi fecero più male di cento bastonate, erano un segno di resa, ma alla fine era un consiglio a fin di bene… Lo capii dall’ultimo abbraccio, forte, dei “miei”, quando un giorno misi insieme poche cose e scappai».

Comincia l’odissea, una vita fatta solo di pericoli, mai un sorriso, un momento di felicità, come ora gli capita ogni tanto. «Essermi staccato dalla mia famiglia – osserva Kevin – mi ha lasciato una ferita profonda, è la sconfitta della fuga, come se il mio fosse stato un segno di debolezza: io avrei anche affrontato tanta violenza, ma non so cosa sarebbe rimasto di me; io stesso, a mia volta, fossi sopravvissuto a tanta furia, sarei potuto diventare più violento di loro».

Storie 04

SOFFERENZA SU SOFFERENZA

La sofferenza di Kevin prosegue. «Dovevo arrivare in Libia – dice – e una volta arrivato lì, non mi va meglio, dei sette mesi circa passati in quel Paese, che vedevo come un punto di arrivo, almeno quattro li trascorro in una prigione e anche qui giù bastonate senza motivo; quando mi picchiavano pensavo sempre a quel giorno che tutta quella sofferenza sarebbe finita; la vita che ci racconta il Vangelo è fatta di dolore ma anche di gioia: io, il primo, il dolore, avevo imparato a conoscerlo, pensavo che prima o poi sarebbe arrivata anche la gioia, sotto forma di non so cosa, ma quella sarebbe arrivata anche per me…».

Non aveva soldi e per i suoi aguzzini, banditi armati di pistole e fucili, lui in qualche modo rappresentava un capitale. Braccia da lavoro, per qualcuno che pagasse il suo lavoro come fosse una cauzione. «Finalmente un signore si fece vivo – ricorda il diciannovenne nigeriano – fu garbato, ma anche molto chiaro: era disposto a pagare ai miei carcerieri il valore che questi avevano dato alla mia vita, mesi a pane e acqua; così fu: feci il muratore, le pulizie ovunque capitasse, mi impegnai nei campi; tre mesi, più o meno, bastarono quelli per “pagarmi” il viaggio verso l’Italia; la Libia, che in un primo momento poteva sembrare un Paese ospitale, tanto da darmi lavoro e una prospettiva, si rivelò una delusione: però quella prigionia stava finendo e questo era ciò che più di qualsiasi cosa contava».

Storie 03

LAVAPIATTI, CAMERIERE, CUOCO E CHEF

Kevin è molto contenuto, non vuole andare incontro a una delusione. Il suo cuore, però, esplode di gioia quando vede il “suo” gommone, che condividerà con tanta altra gente in fuga dalla Libia. «Tanta fu la gioia che entrai in uno stato confusionale: se qualcuno mi chiedesse quanti eravamo a bordo e quanti giorni ho viaggiato su quella “bagnarola” non saprei dire, uno, forse due; lo stesso la nave che ci soccorse, forse italiana; non appena toccai terra tutto divenne più chiaro: ero arrivato a Catania, ero dunque in Sicilia, Italia; un bus accompagnò un po’ di noi, appena sbarcati, verso Taranto, quell’odissea era finita!».

Finito il dolore, Kevin sogna. «Sento spesso i miei genitori, ci sentiamo più o meno una volta a settimana: le loro voci e quelle della mia sorellina, per me, sono di grande conforto; non ho conosciuto la mia adolescenza, sono stato costretto a crescere, ma i sogni non me li toglie nessuno: un giorno vorrei diventare chef, compiendo il percorso netto, dunque stare in cucina, lavare i piatti, osservare come si preparano le pietanze, fare il cameriere e, infine, diventare uno chef, imparare a cucinare italiano e non solo; ogni notte penso a quella divisa bianca, candida, sulla mia pelle nera: chissà un giorno…».

Colazione con le Frecce tricolori

Spettacolo sul Lungomare di Taranto

«Quei piloti sono dei fenomeni, meglio dei “Top gun”!». I ragazzi di “Costruiamo Insieme” si emozionano davanti alla pattuglia acrobatica militare. E ai tarantini. «Ci hanno fatto posto per ammirare insieme evoluzioni da lasciarti senza fiato». E il Giuramento. «Massimo silenzio e rispetto per chi giura fedeltà alla Patria»

Frecce 12 - 1

Colazione con le Frecce tricolori, la pattuglia acrobatica famosa in tutto il mondo. I ragazzi di “Costruiamo Insieme”, attenti alle notizie su internet si lasciano ingolosire dall’occasione. Succede che le “Frecce”, onore e vanto dell’Aeronautica militare italiana, sorvoleranno i cieli di Taranto con quelle scie bianca, rossa e verde, diventate proverbiali, così perfette e così sincronizzate al millesimo di secondo da sembrare tracciate con l’ausilio di un goniometro.

Moussa, Soulemane, Dramane sono fra i primi a candidarsi a un posto d’onore per assistere alla parata sul lungomare Vittorio Emanuele. Allahssane spiega ai ragazzi il rigore che i militari assumono in occasione del Giuramento. «Lo giuro!» è il grido di fedeltà alla Patria che centinaia di ragazzi dell’Aeronautica militare scandiranno mentre sono in riga, sotto un sole cocente. Con perfetto sincronismo la pattuglia acrobatica sorvola la Rotonda del lungomare. Uno spettacolo, preceduto da un boato di stupore e seguito da un lungo applauso.

Frecce 02 - 1 (1)

«Ma come fanno a essere così bravi e concentrati questi?», domanda Dramane facendo sbucare gli occhi da un coloratissimo paio d’occhiali, «Sono dei fenomeni!».Un attimo di pausa, utile per una confessione. «Non lo farei mai, non ne ho le capacità; ho paura del mare, figuriamoci dell’aereo: a casa mia diciamo che Dio ha creato l’azzurro per le creature del cielo, poi fra mare e cielo preferisco la terra ferma, stare con i piedi piantati in terra».

Sulle straordinarie capacità dei piloti in volo, Soulemane prova a dare una sua interpretazione. «Sono come i piloti di Formula uno, anche quelli rischiano la vita, questione di attimi!». Moussa mette tutti d’accordo. «Se un pilota della Ferrari sbaglia una curva finisce fuori pista – osserva – se sbagliasse un pilota della “squadra” provocherebbe un disastro ai colleghi e rischierebbe di brutto: ecco perché sono fenomeni, i “nostri” Top gun; per me è pericolosissimo pilotare un aereo e sollecitare il mezzo del quale sei alla guida a seguire gli altri compagni di volo come fosse una danza: devono essere concentrati al massimo, avere i nervi saldi, ognuno di loro mette la propria vita nelle mani degli altri».

Frecce 09 - 1

Mette tutti d’accordo. Allahssane per primo. «E’ una cosa che io non potrei fare mai – dice – intanto perché è complicatissimo, qualche volta in foto o nei filmati ho visto la cabina di pilotaggio: devi essere bravo a capirci qualcosa con tutti quegli strumenti di bordo, non ne sarei capace; però una cosa posso dirla: invidio le capacità fuori dal comune che hanno i piloti; concentrati al massimo, a darsi istruzioni uno con l’altro, a staccarsi dai compagni in volo per descrivere quelle figure straordinarie: è una grande emozione ammirarli!».

I ragazzi prima di presentarsi sul lungomare, sorseggiare un espressino, si sono documentati a lungo. Sulla chat whatsapp di “Costruiamo Insieme” da giorni circolano video appena scaricati da internet. L’ammirazione è totale. E se la manifestazione è per le undici, alle nove in punto i ragazzi sono operativi. «Non ce la perderemmo per niente al mondo», dice uno di loro. Il lungomare è a due passi dal Centro di accoglienza “Cavallotti”. «Gli aerei delle Frecce tricolori ci sfilano sotto casa e noi, che facciamo, non andiamo ad ammirarle?», mette tutti d’accordo Soulemane. La pattuglia acrobatica anticipa di poco l’orario del “saluto” ai tarantini e ai militari che stanno prestando Giuramento sulla Rotonda. La cerimonia che vede schierati i ragazzi dell’Aeronautica, è appena più breve del previsto, così le Frecce sfilano in perfetta sintonia con «Lo giuro!». Sembra telecomandato. Sembra facile, ma non lo è. Anzi, è complicato. Ma i piloti, considerati in assoluto i migliori al mondo, risolvono al millesimo anche questo leggero imprevisto.

Frecce 02 - 1

Migliaia i tarantini e i familiari dei ragazzi schierati sulla Rotonda, che hanno scelto il loro privilegiato punto di osservazione. I ragazzi di “Costruiamo Insieme” sono strategici. «Ci siamo attrezzati per scegliere le postazioni da cui si possono meglio osservare le evoluzioni che le Frecce tricolori promettono su internet».

Internet. E’ lo strumento con il quale i ragazzi si consultano non appena hanno un po’ di tempo. C’è chi lavora, chi studia, chi frequenta corsi di formazione, infine chi prende l prime lezioni di alfabetizzazione. Qui i ragazzi vengono accompagnati nei loro piccoli sogni nel cassetto: imparare bene la lingua, saperla scrivere; imparare un lavoro e mettersi, professionalmente e al più presto, al servizio della comunità di cui sono ospiti.

Frecce 06 - 1

«Oggi (venerdì 29 giugno, ndr) ci siamo orgogliosamente sentiti parte di questa gente – spiega Dramane – c’era chi ci faceva spazio per farci ammirare Giuramento e Frecce tricolori; nessuno ci ha indicati come se fossimo un corpo estraneo al tessuto sociale di questa città; oggi è un giorno di festa per due motivi: abbiamo assistito a una cerimonia militare, importante, e visto la pattuglia acrobatica famosa in tutto il mondo; abbiamo avvertito l’abbraccio sincero con i fatti, piccoli gesti, della gente che ha mostrato una volta di più di avere rispetto nei nostri confronti e, con ogni probabilità, di vederci come se ognuno di noi fosse uno di loro».

Frecce 01 - 1

«Il senso della vita»

Indogesit, nigeriano, trentotto anni

«Rapinato di continuo, un giorno ho denunciato i banditi: così è cominciato l’inferno. Minacciato, hanno cercato di uccidermi, vivo per miracolo; la fuga per evitare vendette contro mia figlia e i miei fratelli». L’aggressione, le gravi ferite, il lavoro, il viaggio, finalmente l’arrivo in Italia. «Da quel momento ho riassaporato la voglia di vivere».

Storie 05

«Queste cicatrici sul petto, sono tagli provocati dal collo di una bottiglia di vetro usato contro me, come fosse un coltello!». Indogesit, trentotto anni, nigeriano, cristiano, si scopre. Mostra i segni di una violenta aggressione subita dopo aver denunciato alla polizia locale i rapinatori che avevano fatto irruzione nella sua piccola agenzia immobiliare. «Per questi delinquenti era diventata un’abitudine – ricorda – la mia piccola attività, per loro, era diventato un bancomat!». Non ce la fece più Indogesit, li aveva ancora visti in faccia, sempre gli stessi, non ci aveva pensato su due volte a denunciare l’ennesima rapina, anche l’ultima era stata una violenta aggressione. «Non fanno complimenti nel mio Paese – prosegue – vanno subito al sodo: “Fuori i soldi!”, ti urlano; non ti danno il tempo di replicare, ti colpiscono con qualsiasi cosa abbiano fra le mani, di solito il calcio di una pistola, l’arma che dalle mie parti i malviventi indossano come fosse un qualsiasi accessorio, una cintura, un orologio: la stessa cosa; e di solito non la portano per abbellimento o solo per mettere paura: la pistola la usano!».

Una rapina, la denuncia, l’aggressione. La fuga da Calabar, il villaggio nel quale Indogesit aveva vissuto fino a quei giorni, campando dei magri guadagni che quella sua piccola attività immobiliare produceva. «Non ce la facevo più – dice Indogesit – mi recai al primo posto di polizia, denunciai l’accaduto, vidi lo schedario e indicai le facce di quei rapinatori tornati in agenzia a svuotarmi le tasche; gli agenti li rintracciarono presto, li condussero in carcere».

Storie 06

LA GIUSTIZIA, UN’IDEA ASTRATTA

Le cose da quelle parti, spesso non filano lisce. La giustizia, specie nei villaggi lontani dalle città, è un’idea astratta. E’, più o meno, un “tutti contro tutti”. Difficile distinguere i buoni dai cattivi, complicato fidarsi di un uomo in divisa piuttosto che di un avvocato. La corruzione è il pane quotidiano, a Calabar come nel resto della Nigeria. E se qualcuno non accetta soldi per tacere o voltarsi dall’altra parte, rischia la vita. E’ la storia di Indogesit, che poneva fiducia nella legge, ma che da quel momento entra in un incubo senza fine. «I rapinatori furono rimessi in libertà – ricorda con tutta la rabbia che ha in corpo – avevano soldi per pagare cauzione e avvocati; i legali facevano anche il lavoro sporco: venivano a trovarmi, mi minacciavano, secondo loro avrei dovuto rimangiarmi tutto quello che avevo detto circa la rapina: nemmeno per sogno!». Alla luce di quanto accaduto successivamente, mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi familiari, oggi Indogesit forse non lo rifarebbe. «A causa di quella denuncia – conferma – ho subito un’aggressione che mi stava costando la vita; quei delinquenti erano tornati per l’ultimo avvertimento: dalle minacce erano passati ai fatti, uno di loro perse le staffe, ruppe la prima bottiglia che gli capitò a tiro, impugnandone il collo come fosse un pugnale per scagliarsi contro me, il mio petto, con lo scopo di ammazzarmi; colpito ripetutamente caddi a terra, in fin di vita, loro fuggirono». Niente ospedale, non si sa mai. «Quelli non scherzavano, lo avevano già dimostrato: sarebbero venuti sicuramente a trovarmi, stavolta per chiudere definitivamente i conti; la paura aveva contagiato i miei familiari, non potevo più stare lì; strana la vita: ero la vittima, ma rappresentavo un grave pericolo per tutti!».

Indogesit non ha più i genitori, sono morti. Ha due fratelli più grandi e una sorella più piccola che oggi si prende cura di Ini, la sua figliola di dodici anni avuta da una compagna da cui oggi è separato. «Sento Ini – ci racconta, si emoziona – una, due volte a settimana: chiamo mia sorella, le chiedo come stanno, me la faccio passare per farle mille raccomandazioni; “Fai la brava, comportati cristianamente, ogni giorno leggi il vangelo….”, le dico».

Storie 03

LA FUGA, UNICO RIMEDIO PER SALVARE LA FAMIGLIA

La fuga, nonostante le ferite. «Non potevo più stare lì, troppo pericoloso, per me e per gli altri; così fuggii per la Libia, con lo scopo di imbarcarmi per l’Italia o un altro Paese; la prima cosa da fare era allontanarmi dal pericolo, con quei pochi soldi che avevo messo in tasca per trovare un gommone in partenza da Tripoli». La sfortuna non era finita. «Appena messo piede in Libia – continua Indogesit – fui imprigionato, due mesi di stenti, il dolore delle ferite e del cuore, aver lasciato mia figlia e il resto della famiglia mi bruciava; avevo la mente confusa, ma ancora viva l’idea che avrei dovuto farcela: una volta fuori feci qualsiasi lavoro mi capitasse a tiro, pitturazioni, giardinaggio, ogni occasione era buona per mettere in tasca soldi che mi sarebbero serviti per pagarmi il viaggio su un gommone».

Dopo tanta sofferenza, uno spiraglio. «A Tripoli l’imbarco, a decine stretti gli uni agli altri, il mare aperto, immenso, la paura che la rotta appena presa da quell’imbarcazione non fosse quella giusta, viaggiavamo a vista, senza una meta precisa: le preghiere e il sogno che da qualche nave qualcuno ci avvistasse e venisse a salvarci». La sofferenza per Indogesit sta per finire. «Ore terrificanti – conclude – fino a quando una nave francese non ci avvicinò per issarci a bordo: quella poteva essere la svolta, doveva esserlo. Arrivammo sulla costa siciliana, fummo soccorsi; fui accompagnato in ospedale, affaticato, le ferite sul corpo andavano curate nel modo giusto; rimesso in piedi, un bus per Taranto: da quel momento la mia vita ha ricominciato ad avere un senso».