Roberto Vecchioni, lunedì scorso all’Orfeo di Taranto
«Il concerto cambia le tue canzoni, ogni sera ti prende in modo diverso. Ottimo il rapporto con “Luci a San Siro” e “Samarcanda”. Quando ho visto la scena di “Tre uomini e una gamba” ho riso come un matto. Invecchiando ti rendi conto che non è tutto far musica e canzoni. Sento vicini Guccini e Branduardi, quelli del “Tenco”. Insegnare ai giovani aiuta a tenersi vivi. Il Salento è casa mia…».
Due giorni nella sua Puglia. Lui milanese di nascita (Carate Brianza), origini napoletane, salentino di adozione. Dopo due anni di stop a causa della pandemia, è tornato fra il pubblico. Due concerti con l’Orchestra della Magna Grecia diretta dal Maestro Pasquale Veleno, domenica in piazza a Fasano, lunedì al teatro Orfeo. Dunque, Roberto, il tuo rapporto con il “live” e un ritorno alle tue origini, il Salento che tu ami così tanto.
«Con il “live” ho un rapporto bellissimo, lo stesso con il Salento, la Puglia in generale. Castro, Leuca e Gallipoli le considero casa mia. E’ lì che vado al mare. E poi, le basiliche e le cattedrali, una meraviglia. Il rapporto “dal vivo” è molto più bello di quello col “morto”, che poi sarebbe lo studio, la realizzazione di un album. Il “live” ti dà modo di cambiare ogni sera, di dare altre inflessioni a una canzone, di emozionarti in modo diverso. E poi il “live”, quello con una orchestra così importante, è molto particolare…».
Quando si fa un album, le canzoni si pensa al come metterle in sequenza. Nel concerto come funziona?
«Prima si studiano le canzoni da riprodurre; a volte capita che alcune voglio ricantarle io; altre, stranamente, restano lì, non le canto per anni, ma poi mi piace recuperarle. Vengono fuori tre, quattro scalette, fino a quando alla fine non viene fuori quella giusta. Non è mai capitato, però, di avvertire la sensazione che il pubblico non trovasse di suo gradimento la scelta definitiva».
Il rapporto con il passato discografico com’è?
«Non è importante, ho scritto trecentoventi canzoni, prima o poi le ricanto tutte. C’è tempo…».
Foto Aurelio Castellaneta
Con “Luci a San Siro” e “Samarcanda” come siamo messi?
«“Luci a San Siro” è sempre una cosa diversa, è un happening, un divertissement, ormai va e viene sulla mia voce, l’accompagnamento è libero al massimo. E’ diventata una song molto intensa. “Samarcanda”, il più delle volte, resta uguale…».
A proposito di “Luci a San Siro”, bel tributo Aldo Giovanni e Giacomo, in “Tre uomini e una gamba”.
«Sono miei amici da sempre. Ci conosciamo da prima che il successo li consacrasse attori di alto livello. Siamo interisti tutti e quattro, poi… Prima del Covid ci incontravamo spesso allo stadio. Presto torneremo ad abbracciarci. “Luci a San Siro” è il nostro inno. La mia reazione alla scena in cui Giovanni è in auto, sfila dal mangianastri “Anima mia”, per mettere “Luci a San Siro”? Mi aveva avvisato Giovanni, ma quando quello spezzone l’ho visto al cinema ho riso come un pazzo!».
Il rapporto con i colleghi?
«Invecchiando si ha sempre meno tempo di vederli. Ci si rende conto che nella vita non è tutto far musica e canzoni. Quando hai trenta, quarant’anni hai passione e voglia di lottare, poi con gli anni vengono fuori cose che contano molto di più: gli amici, la famiglia, la vita privata. Questo avviene nel teatro, nel cinema, nella canzone. Vedo poche persone a cui voglio bene: Guccini e Branduardi per esempio, loro mi stanno nel cuore, gli amici del “Tenco”, che rivedo più o meno ogni anno. Ma, di sicuro, ma con gli altri non c’è più quel rapporto che esisteva un tempo».
Il rapporto con Sanremo.
«La prima volta ci sono andato quando ero piccolo e incosciente, era un’altra cosa. Dovevo uscire dal mio bozzolo e fare qualcosa. Oggi la vedo come una cosa divertente, una kermesse di italianità perduta: va vista così, in quella forma».
Foto Aurelio Castellaneta
Jannacci, dietro le quinte, in uno stesso Sanremo incrociando Gino Paoli, pronunciò la seguente frase: “Anche tu, qui, Gino, a fare ‘ste puttanate?”.
«Ah! Ah! Ah! – risata esagerata – però vedi, servono comunque, perché Sanremo è una rassegna popolarissima. Quelle “puttanate” in passato le hanno fatte anche Dalla, Vasco, Zucchero, Cocciante, Jovanotti; le ho fatte pure io, come Ron e Barbarossa, che il Festival lo abbiamo anche vinto. C’è stato un momento della nostra vita artistica in cui siamo “usciti” tutti con quelle “puttanate”…».
Un giorno dicesti “Se non vendi settantamila copie sei fuori mercato”, solo dieci vendono di più.
«Oggi anche quelle settantamila non si vendono più, saranno rimasti in cinque a venderne così tante. Il mercato, purtroppo, è calato dell’80%, il cd è superato, c’è Internet: si prende tutto da lì. Sono contento, però, di essere fra i pochi a resistere, io che di copie una volta ne vendevo anche trecentomila. Le cose sono cambiate parecchio. Non basta più fare un bell’album, ci vuole sempre un’idea straripante che faccia ascoltare a tutti un pezzo per vendere l’intero disco. A me non piace questo sistema, ho rispetto di quel pubblico che se trova un disco bello lo compra…».
Qual è il sistema per stare accanto ai giovani, tu che sei un “pensionato non pensionato” e “docente senza portafoglio”?
«E’ divertentissimo, mi permette di insegnare una materia sulla quale ho lavorato per anni: quanto contano le parole nelle canzoni, dall’antichità ad oggi, un tema che a Scienze della comunicazione ha interessato anche cinquecento, seicento studenti per volta, non pochi; questa cosa mi ha sempre dato straordinarie sferzate di vita. Stare con i giovani? Tutti sono giovani, anche i cinquantenni, i sessantenni sono giovani, basta volerlo; non è un problema di acciacchi: ma, attenzione, per mantenerti giovane devi tenere anima e cuore in costante allenamento».