Silvia, operatore di “Costruiamo Insieme”
«Devi spenderti con amore, avvicinarti a un mondo nuovo. Conoscerli attraverso occhi che non hanno avuto adolescenza. Parlano dei genitori lontani dei loro consigli e le loro raccomandazioni. Adoro fare tutto questo, felice di andare ogni giorno al lavoro»«O lo fai con amore, oppure meglio lasciar perdere!». Silvia, operatore di “Costruiamo Insieme” dal 2016, racchiude in una sola battuta il suo pensiero sul lavoro svolto per la cooperativa sociale in questi tre anni. «Non è un lavoro come tanti altri, di routine: la cosa principale richiesta è la massima sensibilità; questa, infatti, non puoi improvvisarla: o ce l’hai nel tuo dna altrimenti è meglio cedere il passo a chi in tutto questo può metterci l’anima».
Anima e cuore, è una costante nel confronto. Conosciamo Silvia per il suo modo di spendersi dentro e fuori il perimetro dell’accoglienza. Fossimo in un Valtur, lei sicuramente sarebbe il “capovillaggio”. Per come riesce ad animare qualsiasi iniziativa lanciata da presidente e direttore. I suoi video nella chat di “Costruiamo” sono diventati virali. I progetti più belli vengono sostenuti dai suoi messaggi ironici, tesi a sensibilizzare colleghi e ragazzi.
Torniamo a tre anni fa. «Mi sono trovata a “Costruiamo” casualmente; incontrai il presidente, Nicole Sansonetti, toccammo diversi argomenti sui quali ci trovammo in perfetta sintonia: da lì in poi è stata collaborazione, stretta: mi sono occupata del Centro di accoglienza per minori all’interno dei CAS; non è un caso dicessi che una cosa va fatta bene, non ci sono “se” o “ma”: se non ami il prossimo, in questo caso i bambini, meglio passare il testimone a qualcuno che ci mette cuore e amore».Dunque, i minori. «Basterebbe incrociare lo sguardo di uno di questi giovani accolti in questi anni da “Costruiamo”: sguardo smarrito, in cerca di un abbraccio, di una coperta, un giaccone, qualcosa da mettere sotto i denti, perché il viaggio della speranza è l’unica cosa a cui aggrapparsi; qualcuno è arrivato con i genitori, altri da soli: papà e mamma, a malincuore, li hanno messi su un barcone che si spingeva al largo in cerca di un futuro dignitoso; ecco lo spirito con cui io e i colleghi abbiamo sempre accolto e seguito questi ragazzi».
Un lavoro sostanzialmente nuovo. «Sono stata sempre spinta dalla curiosità – dice Silvia – dal conoscere altre culture, che puoi anche non condividere, ma che è necessario conoscere per capirne le dinamiche; oggi quei minori sono diventati maggiorenni, stanno con noi, hanno i loro documenti e cominciano a vivere una nuova vita con nostra somma soddisfazione».
Fra le altre, una soddisfazione. «Avere abbattuto una certa diffidenza; ma, attenzione, non a spallate, ma con un impegno quotidiano nel quale provare a dare, tanto, e avere anche poco; quel poco, giorno dopo giorno si è trasformato in tanto, così da diventare un sicuro punto di riferimento per qualsiasi scelta, piccola o grande che fosse: sembra che si stia parlando di grandi sistemi, e forse in qualche modo lo è, ma provate a pensare per qualche istante a ragazzi che fino a qualche tempo fa vivevano in un villaggio, rischiavano quotidianamente la vita, non avevano tempo per pensare ad altro che non fosse la lotta alla sopravvivenza: non un solo giorno, ma trecentosessantacinque giorni l’anno, per anni e anni, a mangiare pane e disagio; oggi per loro sono diventata una mamma a cui affidare problemi in cerca di una soluzione».
In questo dare-avere, un insegnamento dei ragazzi. «Ognuno prega per la sua religione, il suo dio, non ci sono mai stati dibattiti vivaci sul “questo è meglio…”; mi sono avvicinata al loro credo, cercare di capire in cosa consistesse, per esempio il ramadan, periodo nel quale chi è di fede musulmana si sottopone a momenti di astinenza; i ragazzi hanno visto in questo mio gesto una mano tesa nei loro confronti; per contro, nel periodo della Santa Pasqua hanno voluto conoscere le nostre tradizioni, ho parlato loro dei Sepolcri, della Settimana Santa, li ho avvicinati – come si leggeva un tempo sui nostri testi scolastici – ai nostri usi e costumi; tutto questo perché mi sentissero più vicina al loro mondo: penso di esserci riuscita, ma è solo l’inizio, questo processo di avvicinamento deve proseguire, del resto basta un episodio di intolleranza letto su internet o visto alla tv a farci perdere terreno in un attimo».
Silvia, mamma adottiva. «E’ quello che sento, se non ci fosse questo sentimento nei confronti dei ragazzi, questo sarebbe un vero lavoro, invece penso debba essere più un atto di affetto nei confronti del prossimo: oggi non mi vedrei a fare altro, talmente mi sono spesa e compenetrata in questo impegno; è bello sentirli, quando cercano di spiegarti il senso di educazione ricevuto: “…Mamma diceva così, papà si raccomandava per questo e quello…”; non bisogna mai perdere di vista la madre di tutte le motivazioni: questi ragazzi non hanno vissuto adolescenza e infanzia serene; ogni volta che ci si avvicina al loro mondo, bisogna ripetersi mentalmente questo concetto, una ferita profonda che può rimarginarsi solo con il tempo».
Quando parla del suo impegno quotidiano, Silvia lo fa con lo stesso entusiasmo dei primi giorni. «Adoro fare tutto questo, ogni giorno sono felice di andare al lavoro!».