Omar, ventiquattro anni, senegalese

«Apprezzo pioggia e sole allo stesso modo, mi bastano per riconciliarmi con la vita. Sfuggito ai maltrattamenti nel mio Paese, sono finito tra le grinfie di aguzzini che giocavano con la mia pelle. Affondavano una lunga lama, provocavano ferite, provavamo a dormire su un fianco, tutto inutile. Dopo la libertà. Il mio secondo sogno…»

 «Faccio l’elettrauto, in realtà l’ho sempre fatto, fin da piccolo, ho dovuto imparare subito cosa fosse la vita; adolescenza, poca roba, ho perso papà quando non avevo ancora tre mesi, fui costretto a crescere in fretta». Omar, senegalese, poco più di ventiquattro anni, racconta la sua storia, fatta di sacrifici e voglia di cambiare aria, perché a casa le cose non andavano bene. «E non perché con mamma, fratello e sorella non ci intendessimo, tutt’altro, anzi, li sento spesso: non c’era prospettiva, lavoro ne circolava poco, come il rispetto che nel mio Paese per lungo tempo era un vocabolo dimenticato da tutti, anche dai disperati».

Comprensibile lo sfogo di Omar. «Giravo per trovare un lavoro – racconta – e mi capitava di imbattermi in gente che indossava divise militari, forse milizie, che senza tante domande ti sbatteva contro un muro per provocare una tua reazione, un pretesto per picchiarti; e non erano episodi saltuari, ma cose che accadevano ormai tutti i giorni, come se dovessi pagare dazio sulla terra che calpestavi, l’aria che respiravi, il lavoro che avresti fatto: non c’erano più le condizioni per restare, così un giorno ne parlai in famiglia; soliti discorsi, “Vedrai passerà”, “Questo stato di cose non può durare in eterno”, “Aspettiamo che il tempo passi al bello…”».

Il tempo, bello o brutto che fosse, ci fosse il sole o la pioggia, per Omar guardare il cielo è una festa. «Ho cominciato ad apprezzare la pioggia, che dalle nostre parti – come in Italia, suppongo – significa vita, considerando che l’acqua caduta dal cielo feconda la terra; la limitazione della tua libertà, negarti il rispetto, ti fa apprezzare di più i doni dell’universo; neppure il mare mi faceva paura, quella grande distesa che aveva ingoiato migliaia di fratelli era il passaggio obbligato per la libertà, un ponte per l’Italia, un Paese che ho subito amato…».

«PANE, ACQUA E COLTELLATE»

Mali, Burkina Faso e Niger, attraversati senza problemi. «Quelli cominciano in Libia, quando capiti nelle grinfie di gente che vive di ricatti, vessazioni di qualsiasi genere: ti vedono, sei nero, si avvicinano, ti chiedono cosa stia facendo in giro e se non rispondi giù botte, e allora per non mettere nei guai altri fratelli – questi gli accordi fra noi, per non mettere nei guai il prossimo – dici che ti sei perso, non sai dove ti trovi in quel momento: ti imprigionano in uno stanzone e lì rischi di restare, se non telefoni a casa e ti fai mandare del denaro per riscattare la tua libertà».

La prigionia, una tortura. «Trattati a pane e acqua, e ci andava già bene: ho saputo di ragazzi che restavano senza toccare cibo per settimane, morire anche di fame; noi ce la cavavamo con le torture, così pagavamo pane e acqua: tiravano in aria un ananas e lo tagliavano in due con un solo colpo, un coltello lungo e affilato, con una punta che faceva paura».

Omar e le cicatrici sulla spalla. «Ecco i segni di torture, se non sei forte e non cadi nella tentazione di farla finita a causa di quelle continue torture, puoi considerarti fortunato: la punta di quella lama entrava nella tua pelle, nella carne viva, quasi volessero scuoiarti e, allora, non ti restava che pregare che quella sofferenza prima o poi finisse; ci leccavamo le ferite e provavamo a dormire su un fianco, con quel dolore lancinante…».

RISCATTO E LIBERTA’

Alla fine arrivano i soldi. «Pochi, ma arrivano, mille euro, una somma che hanno incassato prima darmi il benservito con un calcione, come a dire “Vai e ritieniti fortunato!”: è così che funziona; un viaggio di tre giorni a fissare il cielo e il mare azzurri la mattina, neri la notte, prima di arrivare in Sicilia; ero in Italia e nessuno mi avrebbe più fatto del male, un periodo nel Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme” e, in quel periodo, a cercare lavoro, qualsiasi cosa, purché non mi sentissi più un peso per nessuno».

Linea diretta con Korda, città non piccola, né grande, del Senegal. «Sento spesso i miei familiari, parenti e amici, è sempre un momento di grande gioia, anche se questa sensazione di felicità, la sento da quando ho messo piede qui, in Italia: è qui che vorrei restare, trovare un lavoro stabile e mettere su famiglia. Sarebbe come avverare un mio secondo sogno: il primo è stato il senso di libertà…».