«Mio padre trascinato nella “prigione del silenzio”, tre mesi dopo la sua scomparsa». Guineano, ventidue anni, studia fino al liceo. «Sogno di insegnare filosofia, ricomincio dalla terza media, provo a dimenticare ma non è facile». «Italia, Paese libero e rispettoso, sarebbe bello se un giorno ricominciassi da qui»
«Sono arrivato in Italia un anno fa; avrebbe dovuto raggiungermi un cugino che mi aveva aiutato a mettere insieme la somma utile per il viaggio dalla Libia in Italia: non potrò più riabbracciarlo, purtroppo il suo viaggio della speranza è finito in mare!». Qualche ora prima del dramma, in vista delle coste italiane, aveva mandato uno scatto dal gommone, era felice.
Amadou, 22 anni, guineano di Siguiri, una città nella quale come in altre parti del Paese si vive un forte conflitto etnico, sotto un paio di occhiali, prova a mascherare il dolore mentre per noi ricorda una di quelle brutte storie. Gli occhi non mentono. «Mi aveva aiutato a mettere insieme i soldi che mi avrebbero permesso di lasciare la Guinea, terra diventata invivibile». Accuse infamanti, spiega Amadou, che presto hanno portato alla morte del papà. «Conducevamo una vita agiata – racconta con un velo di tristezza – mio padre, commerciante, comprava e vendeva oro; tutto scorreva nella normalità, andavo a scuola, studiavo con grande profitto; obiettivo principale: un giorno mi sarebbe piaciuto insegnare filosofia, e non è detto che in futuro non possa coronare un sogno così grande…». «Papà Mamadou – riprende – non era d’accordo con il partito, autoritario, che poi sarebbe andato al potere; così un brutto giorno, con un pretesto lo portarono via, in una di quelle che noi chiamiamo “prigioni del silenzio”: tre mesi dopo ci informarono che era morto, non si sa come, immagino perché…».
Un fulmine a ciel sereno, poi le accuse, alla famiglia di Amadou. «“Siete di origine etiope”, ci urlavano, io non capivo: “Ma come, io sono nato qui, in Guinea!”, controbattevo; la mia parola, quella di un ragazzo, contro quella di gente che aveva deciso di annientarci a partire dal fattore psicologico: non potevo più andare a scuola, non avevo le risorse economiche».
UNA FAMIGLIA RIDOTTA A BRANDELLI
Un accanimento, una rappresaglia. «Un uomo violenta mia sorella – racconta il ventiduenne guineano – lei lo denuncia, ma l’accusa viene respinta dal tribunale per insufficienza di prove; quell’episodio, però, l’aveva segnata, piangeva a dirotto tutto il giorno, in più occasioni aveva manifestato il proposito di farla finita: unica soluzione, non il rimedio evidentemente, era quello di scappare; la mamma la prese con sé, insieme si rifugiarono in Costa d’Avorio; tempo dopo un’altra brutta notizia: anche la mamma era morta, non mi restavano che lei, mia sorella Aissatou, più grande di me, e mio fratello più piccolo, Alphaoumar: una vita, la nostra, completamente rovinata, una famiglia l’avevano ridotta a brandelli!».
Non ha perso del tutto i contatti con il suo passato. «Intanto sento molto spesso mia sorella – confessa – un giorno mi piacerebbe riabbracciarla, ma su un territorio libero come l’Italia, che sento già casa mia». Amadou vorrebbe restare proprio qui. «L’Italia è un Paese libero e rispettoso – spiega con il suo primo sorriso – cosa che, purtroppo, non posso dire della Guinea dalla quale sono dovuto andare via; certo che mi piacerebbe restare qui, ho ripreso a studiare; riparto dalla terza media italiana, io che nel mio Paese dovevo solo fare altri due anni di liceo, ma poco male, ricomincio da qui».
GUARDARSI INDIETRO, UN LUSSO CHE NON PUO’ CONSENTIRSI
Quando ripensa al suo Paese, viene assalito da una grande nostalgia e dalla voglia di sbattersi per aiutare quello che resta della sua famiglia e riabbracciare sorella e fratello. E un altro cugino, che provvede a mandargli quello che ricava dalla vendita dei beni di famiglia. «Ma guardarmi indietro – osserva – è un lusso che non posso permettermi, non voglio pensare e ripensare a quanto accaduto, devo provare a rimuoverlo se possibile; quando posso sento due miei compagni di scuola, facciamo i soliti discorsi, ci intristiamo e chiudiamo le telefonate con le solite promesse, che poi sono un sogno: rivederci un giorno».
Quando stiamo per salutarci ci regala un’ultima emozione, uno sguardo alla sua infanzia. Ricomincia dal dolore, però. «Papà era un tifoso di calcio – rivela – in una stanza di casa campeggiava un suo grande disegno ispirato a Paolo Maldini: ho ereditato da lui il tifo per il Milan; quando con gli amici giocavo sognavo di prendere a calci il pallone proprio come faceva il capitano rossonero: il campo era uno spiazzo enorme in terra battuta, le porte due canne di bambù infilate nel terreno, un calcio al pallone e via, a giocare da mattina a sera…». Nel cuore di Amadou, una speranza. «Ritrovare un giorno anche una piccola parte di quella spensieratezza; nel frattempo studio, vorrei insegnare filosofia, mentre ora spero di trovare lavoro come interprete, insegnante: conosco francese e inglese, in italiano comincio a cavarmela».