Coronavirus, Italia fanalino di coda nei controlli
Nonostante allo “Spallanzani” di Roma sia stato isolato il temuto germe, il nostro Paese va a rilento. Nel resto d’Europa ridotto vistosamente il numero dei contagi. Le dichiarazioni di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive. «La somministrazione del test non risponde alle linee guida europee»
Diciamolo, anzi mettiamolo per iscritto, così non sfuggirà a il senso di un domenicale che arriva, puntuale – scusate l’immodestia – all’indomani di alcune dichiarazioni attendibili sul coronavirus (il Covid-19) che sgomitano fra il qualunquismo e il niente che da settimane circolano in tv. Del resto, sappiamo che le buone notizie non fanno like ed ascolti. Le trasmissioni che vanno per la maggiore e triplicano l’audience sono quelle che fanno terrorismo. Secondo qualcuno andrebbero denunciate per procurato allarme, ma la battaglia legale (e illegale, considerando gli strumenti di comunicazione direttamente interessati) avrebbe tempi lunghi. Arriverebbe sicuramente dopo che i ricercatori impegnati nella ricerca di vaccini avranno debellato il germe influenzale che arriva dalla Cina e altri tipi di influenza che nel frattempo avranno interessato l’Italia e l’intera Europa.
Italia ed Europa, appunto. Perché i test sul coronavirus vengono somministrati solo a chi ha avuto contatti a rischio, ma presenta anche sintomi? Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello “Spallanzani”, l’Istituto nazionale per le malattie infettive – dove in queste ore è stato isolato il temuto virus – in un incontro con la stampa, ha dichiarato che «in Italia si contano più casi di coronavirus che nel resto dei paesi europei». Questo sistema che gode scarsa considerazione nel nostro Paese, infatti, nel resto del Vecchio continente ha ridotto vistosamente il numero dei contagi.
DA “CASO” A “CASO SOSPETTO”
A Ippolito è stato chiesto come giudicasse il limitare dei test per individuare il coronavirus solo ai pazienti sintomatici, a differenza di quanto è stato fatto sinora in Italia. Domanda inutile, direbbe qualcuno. Ma noi cerchiamo risposte e, allora, sentiamo cosa dice a tale proposito il direttore scientifico dello Spallanzani. «Ci siamo solo adeguati alla definizione di “caso”, aggiornata solo il 25 febbraio dall’Ecdc, l’Agenzia europea di prevenzione e controllo delle malattie; secondo questa si sarebbe in presenza di “un caso sospetto”, che deve quindi essere sottoposto a test, quando il paziente presenta una infezione respiratoria acuta e nelle due settimane precedenti – giorni in cui sorgono i sintomi – lo stesso abbia avuto contatti ravvicinati con un caso probabile (o confermato), sia stato in aree di presumibile trasmissione comunitaria dell’infezione; la somministrazione del test a pazienti che non presentano sintomi non risponde quindi alle linee guida dell’Ecdc, tanto da portarci ad avere risultati non confrontabili con quelli delle altre nazioni». Come a dire, volendo usare una delle frasi più ricorrenti che circolano nel mondo sanitario, che “prevenire è meglio che curare”.
Non sarebbe esatto parlare di comunicazione solo dei casi clinici più gravi. Più corretto è, invece, dire che verranno comunicati soltanto “casi clinici rilevanti” rispetto alla definizione di “caso” stabilita dall’Oms e dall’Ecdc, che oltre agli asintomatici che abbiano avuto contatti “a rischio”, escluderebbe anche chi ha infezioni respiratorie in atto ma senza aver avuto rapporti ravvicinati con casi certi o probabili.
ISOLATO IL VIRUS!
Proviamo allora ad approfondire, grazie sempre al direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani, cosa conosciamo del coronavisurs e cosa dobbiamo ancora scoprire. «Sappiamo già molto e molto scopriamo tutti i giorni – dice il professor Giuseppe Ippolito – grazie alla grande mobilitazione scientifica internazionale; avere isolato il virus allo “Spallanzani” è fondamentale: ci consente di effettuare molteplici attività di ricerca, dalla messa a punto di nuovi test diagnostici alla valutazione dell’interazione con farmaci, fino alle ricerche sui vaccini: naturalmente molto c’è ancora da scoprire, a partire dai meccanismi di trasmissione».
Ma come si guarirebbe dal coronavirus, considerando che il vaccino non sarebbe dietro l’angolo. E’ di queste ore la notizia che la biotech Moderna ha consegnato le prime fiale di un vaccino sperimentale al Niaid, la sezione che si occupa delle malattie infettive all’interno del Nih, l’agenzia Usa che sovrintende alla ricerca in sanità. Ma, è bene ribadirlo, siamo ancora all’inizio di un percorso che non durerà meno di un anno.
Con i due pazienti cinesi ospedalizzati allo “Spallanzani” si è parlato di miracolo. I farmaci utilizzati potrebbero essere una delle armi per contrastare il virus. «Abbiamo usato due farmaci – spiega, in conclusione, Ippolito – il lopinavir/ritonavir, un antivirale comunemente utilizzato per la infezione da Hiv e che mostra attività antivirale anche sui coronavirus; e il remdesivir, un antivirale già usato per Ebola, potenzialmente attivo contro l’infezione da nuovo coronavirus: i nostri pazienti sono guariti dalla polmonite e si sono negativizzati rispetto al virus, ma occorreranno studi più approfonditi per verificare se questo approccio terapeutico possa essere esteso a tutti gli altri “casi”».