Non è una parolaccia, ma una idea per vivere meglio. L’agricoltura come risorsa sociale.
A chi, come me, per lavoro si confronta tutti i giorni con concetti e termini quali Inclusione/esclusione sociale, processi di marginalizzazione, integrazione, lotta alle povertà e chissà quanto altro è legato a processi sociali e culturali relegati in una dimensione umana e all’interno di un vissuto ansiogeno che “puzza” di negatività, spesso sfugge di indagare opportunità e realtà che, per il loro carattere multifunzionale insito, potrebbero rappresentare una risposta univoca e complessiva ai tanti problemi per i quali cerchiamo di costruire una risposta.
Eppure, si tratta di realtà uscite da un anonimato nelle quali erano relegate anche grazie ad una crescente attenzione ed una più diffusa e crescente sensibilità della popolazione.
Ma, per comprendere la dimensione e le potenzialità di ciò che oggi sta diventando sempre più una realtà consolidata e in controtendenza rispetto a dinamiche socialmente devastanti, mi piace lanciare uno sguardo sul passato.
Per esemplificare situazioni che vedono aziende agricole erogare implicitamente un servizio sociale nei confronti di soggetti deboli si può fare riferimento alle tante famiglie conduttrici di imprese agricole che presentano tra i propri componenti un soggetto con svantaggio. Si tratta di situazioni che evidentemente hanno segnato da sempre le famiglie agricole, nelle quali l’inclusione del soggetto svantaggiato raramente richiedeva il sostegno da parte della collettività. Il disporre di un fondo agricolo, infatti, consentiva di trovare una mansione utile, anche piccola, secondaria o temporanea, a tutti i componenti della famiglia allargata, pienamente o parzialmente abili. Il concetto di “disabile” come persona che rappresentava un problema per la collettività in quanto esclusa socialmente, si sviluppa nel passaggio da una società agricola e rurale ad una industriale e urbana, contesti ambientali tendenti più di quelli
rurali a generare esclusione.
Situazioni di questo genere si configurano come l’erogazione da parte dell’azienda di un servizio implicito di inserimento lavorativo che al momento sfugge a qualunque contabilità, in quanto si tratta di un servizio consumato all’interno della stessa realtà familiare che lo produce.
Possiamo pensare, quindi, che l’agricoltura sociale possa essere uno strumento di riappropriazione dell’individuo del proprio ruolo in società da un punto di vista professionale e che possa favorire il reinserimento nel mondo del lavoro attraverso l’acquisizione delle tecniche e le pratiche agricole?
E’ possibile coniugare l’attività agricola con l’attività sociale partendo dal presupposto che la terra non è a disposizione dell’uomo in un contesto di risorse infinite e che il suo utilizzo deve essere responsabile e improntato al riciclo. Ma anche l’accesso alla stessa deve essere garantito a tutti e non a pochi eletti?
Assolutamente si, perché l’agricoltura sociale ha la capacità di riunificare bisogni, identità, tutele per tutti, al di là delle abilità all’interno di un contesto collettivo.
E vi è un altro aspetto per nulla secondario: chi non nutre il bisogno di ritrovare il valore del lavoro non solo come fonte di reddito, ma anche come elemento fondante di una società inclusiva, coesa e sostenibile?
Voglio chiudere pensando che questa possa essere l’alba di una nuova sfida che veda protagonista Costruiamo Insieme all’interno di un percorso di valorizzazione di tutte le competenze disponibili e sempre nell’ottica che non serve sognare una società migliore, serve costruirla a partire dall’offerta di servizi socialmente utili promuovendo percorsi inclusivi, favorendo percorsi terapeutici, riabilitativi e di cura, sostenendo l’inserimento lavorativo di fasce svantaggiate e di persone socialmente deboli in un contesto intergenerazionale.