Una bomba le ha strappato un occhio, a Taranto i primi soccorsi
La storia, il nostro racconto poi ripreso dalla stampa nazionale. Un insegnamento, secondo un agente di Polizia locale. Umiltà e rispetto, il sorriso nonostante una granata stesse portando via per sempre la piccola ai suoi genitori.
Per non dimenticare. Si dice così quando un episodio, diciamo pure una vicenda, considerando la drammaticità del caso, fa il giro del mondo. Scriviamo di Afrah, simbolo adottato a distanza. Per rispetto nei confronti della piccola e degli stessi genitori che sbarcarono a Taranto stringendo fra le braccia quello scricciolo impaurito. Ne parliamo a breve, dopo una riflessione inevitabile considerando quanto andiamo a rispolverare, “per non dimenticare”, dicevamo.
Dunque, la storia di Afrah. Tocca il cuore a chi legge le rubriche sul nostro sito poi riprese da strumenti di informazione più autorevoli. Non ci sentiamo scippati di una notizia, di una sorta di diritto di prelazione. La ribalta di “Costruiamo Insieme” è il lavoro quotidiano di una cooperativa che sta dalla parte dei più deboli, dei ragazzi che hanno bisogno di assistenza, qualsiasi colore di pelle essi abbiano. Insomma, non aiutiamo il prossimo con lo scopo di farci ospitare in una delle tante tv del dolore, il più delle volte a fare da tappezzeria. Lavoriamo nell’ombra. Chi vuole conoscere l’impegno di “Costruiamo”, può consultare sito, canale youtube, ascoltare la nostra web radio.
Lo scopo di portare alla ribalta le storie, da qui la nostra rubrica settimanale, è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica, perché una chiacchiera da bar non diventi un programma politico, considerando a quanto abbiamo assistito in una sorta di caccia alle streghe.
Era il 20 ottobre di due anni fa. All’hotspot tarantino, molto attivo in quei momenti, arrivano decine di profughi. Sono più rilassati, l’impressione che abbiano smesso la loro corsa qualche istante prima, come se avessero il fiatone. Invece, è ansia. Paura di essere respinti insieme a quella speranza che molti di loro coltivavano già nei loro Paesi.
SETTE ANNI, UNA VITA DAVANTI
La storia di Afrah è di quelle drammatiche. Ha sette anni, arriva dalla Libia con mamma e papà. Nel suo villaggio, la bimba cammina, non distante dai genitori. S’inventa un gioco, come fa la maggior parte dei bambini. Fischi ed esplosioni a tutte le ore, per lei, sono la cornice quotidiana, dalle prime luci dell’alba a notte fonda. Non immagina, Afrah, che sta per accadere qualcosa che le cambierà la vita.
Papà e mamma non perdono di vista la piccola. “Sta’ qui, non allontanarti troppo”, raccontano l’ultimo invito di quel maledetto giorno. E, invece, uno di quei fischi si avvicina. Sembra come se quella “corsa” possa finire non lontano. E invece no, il sibilo si avvicina vertiginosamente. Esplode quasi fra i piedi di papà e mamma. Il terrore e il primo sguardo rivolto ad Afrah. La piccola è letteralmente saltata. E’ un fagottino in un cantuccio. Urlano i genitori. Non invocano il Cielo, non urlano disperazione, non ne hanno il tempo. Si agita, piange, il piccolo volto è una maschera di sangue. Purtroppo le è saltato un occhio. Condotta di corsa in uno dei vicini punti di primo soccorso, i medici medicano la ferita, a malincuore constatano che Afrah non ha più l’occhio che le ha portato via una scheggia di granata. Una brutta notizia: ha perso l’occhio; una buona: è salva. “Avevo temuto il peggio – racconta l’uomo, lo spiega grazie a un mediatore che fa da interprete – che fosse stata dilaniata da quella granata, era saltata come la scheggia che l’aveva colpita, una maschera di sangue: per fortuna, ci hanno spiegato i medici, quella bomba non aveva toccato organi vitali”.
Quel giorno, Afrah, è la mascotte dell’hotspot tarantino. La tengono in braccio un po’ tutti, ognuno prova a strapparle un sorriso, a trovare il sistema, senza parlare, per farle capire che adesso è fra amici. Qui sarà curata, papà e mamma non la perderanno più di vista, per niente al mondo.
MIGRANTI, UMILI, RISPETTOSI
Soccorritori, personale che svolgeva attività di accoglienza, agenti di Polizia locale, l’avevano subito adottata. «Qui all’hotspot – ci disse un agente di Polizia locale, negli occhi la disperazione di un genitore – impariamo sempre qualcosa: l’umiltà, per esempio, per i migranti parlano i gesti, discreti, nonostante addosso abbiano una grande paura e, con questa, gli stessi vestiti, bagnati, chissà da quanti giorni; tremano di freddo e di paura; non pretendono, aspettano con un silenzio dignitoso il loro turno. E anche questo è un grande esempio di civiltà: l’assistenza tocca prima a bambini e donne, i ragazzi e gli uomini appena sbarcati devono avere solo un po’ di pazienza».
Afrah non viene abbandonata un solo istante dalla sua mamma. «Mi ha colpito il sorriso della bambina – raccontò l’agente lasciandosi andare in un pianto a malapena soffocato – la dignità, mi ha commosso l’espressione candida mentre avvicinava un foglio all’occhio che le aveva risparmiato quella inaudita violenza: sembrava leggesse, sorrideva, una scena che non dimenticherò mai; come non dimenticherò altre scene: bambini infilati in enormi giacconi dai quali le dita delle mani sbucano a malapena…».
Ecco l’insegnamento di Afrah. Sorridere alla vita, al prossimo che non è sempre un cattivo, uno che lancia bombe sapendo di uccidere o segnare a vita un essere umano. Afrah, che non ha un nome, lo diciamo per discrezione, l’abbiamo chiamata così perché in lingua araba significa “felicità”.