Nigeriano, trentatré anni, non trova altra frase per definire guerra e persecuzioni. La fuga in mare, passando per notti insonni, nascosto per evitare che in Libia lo trascinassero in prigione. «Sento mio padre e i miei tre fratelli, spero un giorno di riabbracciarli».

Foto Storie articolo 03 - 1«Un casino!». Guerra, persecuzioni, fame, fuga. Tutto questo, per Abraham è un «casino!». E’ una delle prime espressioni che ha imparato non appena è sbarcato in Italia. Per spiegare la crisi dalla quale è scappati e i contrattempi fisiologici che ha trovato per inserirsi possibilmente in un diverso tessuto sociale, non trova di meglio che questa breve frase. «Un casino!». E quando le cose vanno ancora peggio, come lo stesso Abraham, nigeriano di trentatré anni, ci racconta, la frase, essenziale, che racconta tutto questo disagio, si arricchisce di un solo aggettivo, giusto per rendere meglio l’idea: «…un gran casino!».

«Sono partito un anno fa – racconta – da Edo, la città in cui vivevo con la mia famiglia; la situazione era già critica, avvertivamo quasi alle porte delle nostre case l’intervento delle milizie che volevano affermare la volontà del governo; oggi, mi dicono i miei fratelli, questa gente se la trovano praticamente in casa, con tutte le difficoltà, gli stenti ai quali la popolazione viene quotidianamente sottoposta».

Così, in Nigeria, anche per la famiglia di Abraham è «un gran casino!». «Gli ultimi tempi – prosegue – ho vissuto insieme con mio zio; mamma era morta, con papà avevo continue discussioni su diversi punti di vista, così per evitare scontri frontali – mima due veicoli che si prendono in pieno…  – ho accettato l’ospitalità di mio zio; poi lui è andato via, ha abbandonato casa, i militari li aveva praticamente alle costole e anche io ho dovuto fare una scelta».

Indietro non si torna. «Non potevo tornare a casa, avevo compiuto la mia prima scelta, litigare cioè con mio padre e le sue idee; visto che avevo giocato grosso, dunque, tanto valeva proseguire e andare via dal mio Paese, non avevo alternative: un grande dolore, la sensazione di una sconfitta umana; lasciare i luoghi che ti hanno visto bambino e poi crescere, è quanto di peggio possa accadere a una persona: dopo generazioni sei tu quello che toglie le radici e non dà continuità alla famiglia».

Foto articolo 05 - 1

RIPRESI I CONTATTI CON LA FAMIGLIA…

A proposito di famiglia, cosa è accaduto negli ultimi tempi. «Ho ripreso i contatti – confessa – prima con i miei tre fratelli, che mi raccontano spesso la situazione in Nigeria: ora i militari se li trovano praticamente in casa, si sentono oppressi; non solo, fanno la fame, come in tutti quei Paesi dove c’è la guerra; quando ci capita di parlare sento nelle loro parole tutta la tristezza del disagio, della paura».

Poi ecco la schiarita con il genitore. La distanza, poco per volta, cura le ferite. «Ora sento anche papà – dice Abraham – ci hanno pensato i miei tre fratelli a mettere pace: sarebbe stato sciocco continuare a coltivare dissapori, stare ognuno sulle sue posizioni con la milizia che bussa alla porta di casa; no, non era proprio il caso… Nelle nostre brevi chiacchierate al telefono, i miei fratelli mi spiegano i dolori giornalieri cui la popolazione viene sottoposta: speriamo il vento cambi».

Chissà se anche loro affronterebbero il lungo viaggio della speranza, passando per la Libia, transito obbligato per sbarcare in Italia. «Sono stato sei mesi lì – ricorda – ma mi facevo vedere poco in giro, dormivo dove capitava, per evitare che anche lì, in Libia, miliziani o banditi, mi acciuffassero dandomi botte e prendendomi il denaro che ancora non avevo: nel frattempo ho fatto pochi lavoretti, a casa riparavo motori dei camion, mi ero specializzato in saldatura; magari mi capitasse di fare qualcuno di questi lavori qui in Italia!». La prima cosa che farebbe, nemmeno a dirlo. «Aiutare i miei fratelli, papà, lasciare a loro la decisione di restare a casa e aspettare tempi migliori oppure affrontare un viaggio sempre pericoloso, a me fortunatamente durato due giorni: sul gommone, insieme con altri centoventi ragazzi, nella pancia fame e paura, nel cuore un gran dolore: un gran casino di sentimenti…».

Foto Storie articolo 01 - 1

SE SOLO POTESSI RIABBRACCIARLI

Altra parola che nel frattempo Abraham ha imparato: «Capo!». Una forma di rispetto, riconoscere ai residenti una sorta di “ultima parola”, un potere decisionale. Così se uno prova ad offrire una colazione, lui, il trentatreenne nigeriano cordialmente risponde: «No, grazie capo!». Il nostro «…come se avessi accettato!».

Mani in tasca, fissa il mare. Prova a guardare il sole, le cose che più di altro gli danno il senso di libertà. «Penso ai miei fratelli, mio padre: tornare ora a casa sarebbe un problema, il viaggio inverso non serve a niente, mi troverei in pieno conflitto civile; i “miei” non vogliono saperne, stanno male ma stanno a casa: convincerli a venire via ha il sapore di un’impresa».

Le mattinate di Abraham trascorrono lente. «Passeggio, penso, e quando sono addolorato mi dà coraggio un sogno: un lavoro e riabbracciare la mia famiglia, qui o a casa non importa, ma sicuramente lontani dalla guerra, dalle persecuzioni, perché alla fine questo è: la mia stessa gente che dà la caccia ai propri fratelli; fino a ieri ci dividevamo il pane, ora questi hanno scelto la forza: non vogliono più dividere, ci affamano con la violenza».