Dramane, maliano, ha in testa il ritorno

«Quando si aggiusteranno un po’ di cose, voglio riabbracciare mio padre. Fuggito a causa della guerra civile, torturato in Libia, arrivato in Italia. Ho imparato l’arte della frutta e della cucina…»

«Ho visto cinque, poi sei cadaveri in mare, durante il mio viaggio per l’Italia: orribile, non dimenticherò mai quelle immagini, ho ancora gli incubi!». Dramane, omonimo di un altro ragazzo ivoriano ospitato dal Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, racconta il suo viaggio dalle coste libiche a quelle italiane. «C’è una bella differenza – spiega – fra cinque o sei cadaveri, me ne rendo conto, ma sfido chiunque ad essere imbarcato in alto mare con onde alte quanto palazzi a sbatterti da una parte all’altra, con la paura che possa finire tu stesso in acqua e contare quei corpi che galleggiano davanti ai tuoi occhi: ognuno di noi – eravamo a decine – si era rifugiato sul primo barcone avvistato, svuotate le tasche dal denaro che avevamo e pagato chi ci avrebbe condotti in salvo; in quei momenti, in mare, avevamo una paura esagerata: pensavamo solo a portare in salvo la pelle, non a contare i defunti che ci galleggiavano ora a dieci, ora a cento metri: pregavamo, invocavamo il Cielo che quella tempesta finisse, che il mare tornasse una tavola – si dice così, vero? – e che potessimo viaggiare più serenamente verso l’Italia, perché era qui che volevo sbarcare».

Pregavano, terrorizzati, fissavano le vittime di quel viaggio della speranza. Temevano che il prossimo, in mare, potesse essere uno di loro. Dunque, cinque o sei. «Il mare mescolava quei cadaveri come fossero carte da gioco, provavi anche a contare quelle vittime: “Uno, due…un altro laggiù in fondo, tre! Alle nostre spalle, ecco, quattro! No, è un relitto che galleggia, per fortuna non è una vittima…”».

Il racconto del maliano Dramane è circostanziato. «Quando ero in Mali, con mio padre, Seidou, parlavamo spesso di una mia fuga: non un viaggio, ma una fuga, proprio così; i rapporti con il resto dei familiari a causa della guerra civile scoppiata nel mio Paese erano ormai tesi: poteva accaderci qualsiasi cosa, di notte come in pieno giorno; non lasciavo il Mali, ma scappavo dal Mali; ed è lì, a casa, che un giorno voglio tornare, riabbracciare i miei affetti, anche se mi rendo conto che non è molto semplice, anche se la speranza è l’ultima a morire».

LIBIA, DELUSIONE E BOTTE

La fuga, una costante nella vita di un ragazzo di nemmeno venti anni. «Pensavo di fermarmi in Libia – spiega – a prima vista mi sembrava una terra accogliente, c’era lavoro e circolavano soldi, non molti, ma non ti sentivi schiavo, né minacciato, fino a quando le cose sono cambiate: i soldi di colpo sono diventati “piccoli” e i miliziani si sono incattiviti; forse non servivamo più come prima o forse volevano trattenersi più soldi dal nostro lavoro quotidiano, sta di fatto che abbiamo cominciato a sentirci perseguitati senza un motivo; era cambiata l’aria, il lavoro c’era, ma non più per lo stesso danaro: a un certo punto abbiamo cominciato a lavorare con un salario settimanale e mano a mano che ci avvicinavamo a fine settimana, ci dicevano che avrebbero pagato a metà mese, poi a fine mese: un casino!».

Un «casino», in Italia questo vocabolo indica “confusione”. Ecco, «…era scoppiato il casino». E, allora, dopo essere scappato dal Mali, gli tocca mettere gambe in spalla e fuggire con una di quelle barche che galleggiano per scommessa. «Eravamo perseguitati ormai; il colore della pelle, inequivocabile: ci riconoscevano fra mille e, allora, fucile spianato, prima ci chiedevano le generalità delle quali, francamente, se ne infischiavano, ma servivano per tenerci lì e studiarci; poi le tasche: “Cosa avete in tasca? Non fate i furbi, non scherziamo, vi mettiamo a testa in giù e vi facciamo sputare fino all’ultimo dinaro!». Quando uscivamo dal locale nel quale ci eravamo rifugiati, in tasca ci mettevamo pochi spiccioli, se non avessimo avuto un solo dinaro ci avrebbero massacrati di botte, così avevamo messo in conto di perdere quei soldi, già pochi».

Un brutto viaggio, le onde sbattevano quella barchetta a venti, trenta metri di distanza. Ma come fosse un miracolo, finalmente l’Italia. «Avevo sognato quel momento – ricorda con emozione Dramane – appena sbarcai pensavo che l’Italia o un altro Paese europeo, considerando quello che avevo passato fino a quel momento, sarebbe andato bene; avevo nella testa, però, sempre casa mia: in qualsiasi nazione fossi arrivato, una volta realizzato denaro con il lavoro e calmate finalmente le acque in Mali, sarei tornato».

AMORE A PRIMA VISTA

Con l’Italia è amore a prima vista. «Tutta un’altra cosa rispetto a quello che avevo passato negli ultimi tempi prima a casa mia, poi in Libia: fuga, umiliazioni, torture che non auguro a nessuno, perché quando le subisci non sai mai quando e se un giorno finiranno; con l’arrivo in Italia finalmente un sospiro di sollievo».

Dramane e il futuro. «Ho imparato le prime parole in italiano, sono più bravo nel comprenderle più che pronunciarle, ma ormai afferro il senso e mi faccio capire». Non si è spaventato davanti a nulla il giovanotto maliano. «Ho fatto i calli alle mani, ho solo voglia di lavorare, dimostrare che voglio guadagnarmi stima e possibilmente danaro con il sudore della fronte; la prima esperienza con un fruttivendolo: qualcuno dirà “Bel lavoro!”, invece io dico che qualsiasi lavoro fatto con impegno è un bel lavoro; questo signore si è fidato ciecamente di me, mi faceva esporre le cassette della frutta, mi insegnava come riconoscere un frutto buono e la tecnica di vendita: la merce più bella doveva essere esposta in bella vista, così che la gente possa avvicinarsi e comprare».

Non solo ortofrutta. «Ho lavorato anche in qualche ristorante; nei giorni e nelle ore in cui ero senza impegni giravo per locali, in particolare nei ristoranti: riordinavo la sala, cominciavo con lo scopare e poi lavare a terra; poi raccoglievo i rifiuti e andavo a gettarli nei cassonetti; uno di questi titolari, si è complimentato, mi ha rivelato che i ragazzi italiani vogliono fare subito gli chef, la tv li sta rovinando, non farebbero mai quello che ho fatto io; sincerità per sincerità, gli ho confessato che mi sarebbe piaciuto passare in cucina, anche come lavapiatti, ma stare vicino ai fornelli, imparare la cucina italiana, poi al Cielo spetterà l’ultima parola; ho imparato tanto, se in Mali si aggiustassero un po’ di cose, tornerei a casa di corsa: saprei darmi al commercio di frutta, gestire una trattoria, non mi stancherò mai di ringraziare l’Italia e gli italiani».