Sirag, ventisei anni, libico

«Manifestavo per la libertà, sono stato minacciato di morte, ho lasciato padre, madre e due fratelli. Tremila euro e tre giorni di viaggio in mare: gommone, nave spagnola, nave tedesca, porto di Taranto. Respinto in Germania, voglio costruirmi un futuro da cuoco».

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«Oggi, in Libia, la situazione è drammatica, sono scappato dal mio Paese a causa della guerra civile: ricercato dal governo libico, la fuga è stata l’unica soluzione possibile». Sirag, ventisei anni, musulmano, sorriso appena accennato, come se il peggio fosse ormai alle spalle. Sarà senz’altro così, se durante la chiacchierata nella sede di “Costruiamo Insieme” il giovane mostra una certa serenità della quale si sarebbe riappropriato da poco. Spiega il motivo. «Sono arrivato in Italia lo scorso novembre, un viaggio di tre giorni fra gommone e navi che hanno prestato soccorso a me e altri connazionali, fra questi mio fratello Munir, venticinque anni; il mio proposito iniziale era quella di non fermarmi, tentare fortuna altrove, così una volta compiute le formalità per l’identificazione, impronte digitali comprese, sono partito per il Nord: l’idea che ci siamo fatti dell’Europa è che più ti spingi nella parte settentrionale, maggiori sono le occasioni di lavoro».

Attraversa la frontiera, Sirag, arriva in Germania. «Quella mi sembrava una prima occasione per trovare lavoro, pensare a un possibile futuro, ma non avevo fatto i conti con le leggi esistenti in Europa in materia di accoglienza degli extracomunitari e con il rigore della Polizia tedesca: “Deve tornare in Italia, è lì che le hanno preso generalità e impronte: qui non può restare, ci spiace ma dobbiamo accompagnarla alla frontiera, e faccia attenzione, se dovessimo ritrovarla in Germania per noi sarà un clandestino e per lei il trattamento non sarà benevolo come quello che le stiamo riservando oggi”». Un mediatore traduce dal tedesco all’arabo. Come fa, per noi, Allahssane Diakite, uno degli operatori della cooperativa “Costruiamo Insieme”: parla arabo, traduce alla lettera, pettina dove possibile, i concetti di Sirag. «Insomma, era un vero e proprio avvertimento: fatto con quel rigore tipico che riconoscono ovunque ai tedeschi: “Deve tornare in Italia, una volta lì le diranno cosa fare: non può girare liberamente e scegliersi a suo piacimento un Paese dal quale farsi adottare!”. Questo il senso di quello che ho capito, certo è che dopo poche settimane ho dovuto riprendere la strada per l’Italia, non certo quella di casa…».

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ADDIO A PAPA’, MAMMA E FRATELLI

Pericoloso tornare in Libia. «A casa sono rimasti papà, mamma e due fratelli più piccoli, studiano; non era stato sufficiente che io e mio fratello Munir ci fossimo allontanati da Bengasi raggiungendo Tripoli: i miei cari correvano il rischio di ritorsioni, io e mio fratello eravamo stati segnalati come rivoltosi rispetto al governo esistente nel mio Paese, secondo loro avremmo potuto organizzare ribellioni, sommosse: non c’era tempo da perdere, per salvarci e salvare la vita a genitori e fratelli, dovevamo fuggire».

La democrazia è diventata un fatto astratto. «Con il passare del tempo abbiamo visto che alla popolazione venivano tolti diritti elementari, i militari cominciavano a limitarci nelle nostre scelte, anche le più banali: non si poteva parlare in gruppi, arrivavano e ci minacciavano brutalmente, figurarsi le manifestazioni». Sirag, uno dei più determinati. «Prima che sia troppo tardi e stai vedendo che ti sfugge dalle mani la cosa più importante che tu possa avere nella vita, la libertà, cominci a pensare: reagire significa prendere posizione, far capire da che parte stai, e mentre altri protestavano attraverso il web, io, mio fratello e tanti altri siamo scesi in piazza; mossa coraggiosa, ma che alla fine non ha avuto risultati: come fai ad opporti a quello che stava diventando un regime a mani nude, con il solo aiuto del ragionamento, delle parole? E’ una gara persa in partenza. Miei connazionali si sono ritirati in buon ordine, io e altri abbiamo insistito nel chiedere condizioni più umane, che non fossero quelle di impedirci con qualsiasi tipo di violenza il difendere un sano principio come la libertà».

Molti del Nord Africa vedono alla Libia come a un Paese ospitale, nel quale è possibile trovare lavoro, guadagnare dei soldi, costruirsi un futuro. «Una volta, forse, anche se per i neri la vita è dura: vengono accerchiati, presi in ostaggio, spogliati dei loro beni, impiegati nei lavori più duri in cambio della vita, visto che i soldi il più delle volte li mettono in tasca proprio quelli che imbracciano una pistola o un fucile».

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TREMILA EURO IL “BIGLIETTO” PER L’ITALIA

Sirag può dirsi fortunato. Ha i soldi per pagarsi il viaggio verso l’Italia. «Cinquemila dinari libici, poco più di tremila euro, ci siamo imbarcati in dodici in un gommone lungo sei, sette metri: era l’1 novembre 2017; prendiamo il largo, viaggiamo di notte, finalmente al mattino incrociamo una nave spagnola: non può invertire la rotta, l’equipaggio ci ospita a bordo ugualmente, dicono che in quelle acque troveranno sicuramente qualcuno che potrà accompagnarci in Italia; finalmente incontriamo una nave tedesca, troviamo in coperta almeno un altro centinaio di extracomunitari, tutti insieme veniamo accompagnati a Taranto: tre giorni di sofferenza, niente se paragonato a quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle».

Sirag e il futuro. «Sto facendo un corso di formazione, nel mio Paese lavoravo in una catena di fast food, sul tipo “Mc Donalds” per intenderci: mi piacerebbe fare il cuoco, lavorare fra i fornelli, imparare la cucina italiana, quella europea; avevo intenzione di andare altrove, oggi mi dico che l’Italia può essere l’opportunità della vita, per me e mio fratello; sia chiaro, anche qui ci tocca rigar dritto: in Italia avranno pure il senso di democrazia, accoglienza, generosità, tolleranza, ma le autorità italiane, non c’è bisogno di interprete: “Fate i bravi: patti chiari, amicizia lunga!”».