Lamine J.

Il futuro è la speranza

«Progetto, una parola grossa. Voglio riabbracciare moglie e figlie. Ho lasciato il Gambia a causa degli scontri sanguinosi fra etnie, ma sono finito nelle mani dei miliziani libici»

 

WhatsApp Image 2017-11-30 at 17.15.46«Sono fuggito dal Gambia, il mio Paese, per evitare lo scontro insanguinato fra etnie, e alla fine sono caduto nelle mani delle milizie libiche: è proprio lì sono cominciati i dolori…». Come dire, dalla padella alla brace.

Per Lamine Jegne, ventidue anni, gambiano, moglie e due figlie, fede musulmana, da sei mesi in Italia, da circa due anni in fuga, i “dolori” non sono solo quelli fisici. Per sgombrare il terreno da equivoci su come si scrive il suo nome, tira fuori la carta d’identità, primo passo verso il permesso di soggiorno. Dolori, si diceva. «Danni psicologici devastanti, picchiato ogni giorno: l’unica cosa che potesse far smettere le botte era la mia promessa di procurare danaro telefonando a casa». E a Lamine non restava che promettere. «“Stanno raccogliendo i soldi, dovete avere un po’ di pazienza”», gli dicevo, sapendo di mentire. E loro, “Va bene, intanto te lo ricordiamo a modo nostro, ogni giorno!”». La sua fuga era anche dalla miseria, non solo dalle armi agitate dai militari ogni volta che, d’improvviso, si penetravano nel suo villaggio. «Quando sono stato fermato e imprigionato in Libia, temevo il peggio: non avevo lavorato, dunque non avevo soldi». Mostra i palmi delle mani nude. Vuote le mani, vuote le tasche. Anche un prigioniero intenzionato a comprarsi la libertà, sa che il destino può essere amaro se non hai i soldi necessari per il riscatto. «A casa, mamma e fratello, mia moglie con due bimbe da crescere, avevano appena i soldi per tirare avanti: nessuno avrebbe potuto mandarmi soldi, dunque nessuna alternativa: o restavo rinchiuso lì a prendere botte o provavo a fuggire rischiando una pallottola alla schiena».

«ADESSO O MAI PIU’»

Finché un giorno, Lamine, non ha preso il coraggio a due mani. «Adesso o mai più, mi sono detto; mi sono rivolto al Cielo, ho pregato lacrime agli occhi, rivedendo la mia vita come fosse un racconto, veloce anche quello: dovevo solo pensare a mettere chilometri sotto i miei piedi nudi senza più voltarmi. L’occasione si è presentata: i sorveglianti che te le danno di santa ragione fino a quando non vedono uscire il sangue, si sono distratti e io me la sono dato a gambe: finalmente ero un uomo libero!».

Ama parlare della moglie e delle sue due bambine, lui che un lavoro ce lo aveva anche nel suo Paese. Gli costava una levataccia al mattino, ma era il meno. Quando gli chiediamo se sente i suoi affetti più cari si commuove, gli occhi si riempiono di lacrime, ci vuole un attimo. «Al telefono, spesso; la prima, Djate, tre anni, l’ho tenuta fra le braccia; la seconda, Sose, è nata poco dopo la mia fuga: di lei conosco il pianto, il tono delle sue parole ancora incomprensibili; basta anche questo per farmi felice, per ora…».

Foto-articolo-2

LA MIA SECONDOGENITA, SOLO SENTITA AL TELEFONO

Un discreto lavoro in Gambia per Lamine. «Sono andato a scuola – spiega orgoglioso – ho preso un titolo di studio, l’equivalente di perito meccanico in Italia; è quello il mio lavoro: il meccanico, intervengo su auto, camion e bus; ogni giorno alle cinque del mattino ero già sulla strada, chiedevo un passaggio a chiunque si dirigesse verso il mio posto di lavoro, un’officina meccanica: mediamente ci volevano due ore di strada, se non trovavo qualcuno che mi accompagnasse prendevo il mezzo pubblico; una volta lì, se c’era lavoro, ci davamo sotto fino a quando non rimettevamo in sesto il veicolo: dividevamo quello che incassavamo; quando non c’era lavoro, restavamo a secco, dunque viaggio di ritorno a mani vuote: altre due ore di strada e a letto, sperando che all’indomani fosse meno peggio».

Il futuro non è un progetto. «E’ un’altra cosa, chiamala speranza: ricongiungermi alla mia famiglia, riabbracciare mia moglie e le mie due figlie. Da qui o dall’altra parte del Mediterraneo non importa, mi sta a cuore il futuro del sangue del mio stesso sangue: non appena avrò il permesso di soggiorno, avrò le idee più chiare, tornerò un mese a casa, ne parlerò con mia moglie; sarebbe bello trovare un lavoro qui, non necessariamente da meccanico: sarei disposto a fare qualsiasi mestiere, pur di assicurare un futuro alle mie piccole, Djate e Sose».

Società liquida, diritti e doveri

Seminario a Bitonto. Confronto fra “Costruiamo Insieme” e Amministrazione comunale. L’intervento di Ernesto Chiarantoni. Presente l’assessore Rosa Calò. Incontro promosso da “Città democratica”. 

La competenza degli operatori della cooperativa sociale “Costruiamo insieme” all’interno di un interessante seminario promosso da “Città democratica” e svoltosi a Bitonto. “Diritti e doveri nella società liquida” il titolo del percorso di riflessione in vista del Congresso che celebrerà i dieci anni della fondazione. In rappresentanza di “Costruiamo insieme” è intervenuto Ernesto Chiarantoni, al quale è toccato affrontare un tema delicato come le migrazioni all’interno di un’ottica generale e territoriale.

In particolare, riprendendo il concetto di “società liquida” espresso dal filosofo e sociologo Zygmunt Bauman, Chiarantoni ha posto in evidenza «la contraddizione che permea il nostro quotidiano», paragonando tale concetto «ad un fiume che scorre all’interno di una società statica ispirata a vecchie categorie di analisi, che contengono, invece, la necessità del superamento di schematizzazioni miopi rispetto alla realtà».

«La partita da giocarsi a livello territoriale – ha proseguito Chiarantoni – oggi non può fermarsi alle pratiche di accoglienza, deve bensì trovare fondamento in azioni concrete finalizzate all’integrazione ed alla convivenza con le vittime della migrazione, trasformando ciò che è percepito come un problema in opportunità di crescita per la comunità; affinché questo processo sia reso possibile, è necessario che ognuno di noi recuperi quel senso di responsabilità alla base dell’interazione fra diritti e doveri recuperando la capacità di progettare percorsi capaci di produrre risposte ai bisogni».

Un cenno anche a una sorta di «retroutopia» che tratterrebbe le nuove generazioni inchiodate sul presente. «A causa di una disabitudine a ragionare in termini di futuro – ha concluso Chiarantoni – tanto da annullare il motore propulsivo della speranza, che entra in netta collisione con voglia e speranza, attitudini di cui sono portatori le persone costrette a migrare, per costruire un futuro migliore».

Al seminario organizzato da “Città Democratica”, ha fra gli altri presenziato l’assessore Rosa Calò. L’occasione ha rappresentato per la Cooperativa sociale “Costruiamo Insieme”, gestore del Centro di accoglienza straordinaria di Bitonto, un primo importante momento di incontro con le realtà attive, a vario titolo, nel tessuto sociale per gettare basi per una collaborazione che si auspica possa avere importanti ricadute sociali e culturali sulla città.

Dal dibattito sono emerse, infatti, le enormi potenzialità che può sviluppare il lavoro di rete. Primo passo, da questo punto di vista, già compiuto: conoscenza reciproca e confronto, hanno aperto una strada importante sulla quale sarebbe utile aprire un percorso in sintonia.

Ciao Alessandro

Leogrande, 40 anni, giornalista-scrittore tarantino, è scomparso per un improvviso malore. Forte il suo impegno dalla parte dei più deboli, dai migranti ai braccianti stranieri sfruttati nelle campagne del Sud.

Alessandro Leogrande, non c’è più. Giornalista e scrittore, se ne è andato improvvisamente a 40 anni. La notizia della sua morte, che ha sconvolto amici, colleghi e lettori che lo seguivano, l’ha data il padre Stefano. Aveva collaborato con i giornali “Corriere del Mezzogiorno” e “Internazionale”. Era vicedirettore della rivista “Lo Straniero” di Goffredo Fofi, oltre ad un instancabile cronista di attualità, politica, cultura. Tarantino trasferitosi a Roma, aveva posto con impegno e coraggio l’accento su temi come le migrazioni contemporanee, le nuove mafie, il caporalato nelle campagne del Sud.

Nel ricordo del padre Stefano, non solo il dolore insopportabile di sopravvivere a un figlio, a un figlio così, ma anche la lucidità nel ricordare la sua qualità intellettuale. «Alessandro, per me – scrive il padre – era bellissimo. Alessandro era la Gioia, che entrando in casa , ci coinvolgeva e travolgeva, roboante e trascinante; ma era anche il lavoro fatto bene, analitico e profondo; tutto alla ricerca della verità; ed era anche la denuncia; fatta con lo stile dell’annuncio, che, nonostante tutto, un mondo migliore, è ancora possibile. Ho sempre percepito, orgogliosamente, che la Sua essenza fosse molto, ma molto migliore della mia. Oggi questo padre si sente orfano».

Aveva scritto, si diceva, reportage narrativi sulle nuove mafie, le migrazioni contemporanee, i movimenti di protesta e lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle campagne italiane.

Come scrittore aveva esordito con “Un mare nascosto” (2000), storia che si svolge nella città di Taranto, cui seguono, tra l’altro, “Uomini e caporali”. “Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” (2008), “Fumo sulla città” (2013) e “La Frontiera” (2015). Con Il naufragio. Morte nel Mediterraneo aveva vinto il Premio Ryszard Kapuściński e il Premio Paolo Volponi. Per minimum fax ha curato l’antologia di racconti sul calcio “Ogni maledetta domenica” (2010).
Leogrande-sfondo-twitter-2

Appena qualche giorno fa, Alessandro Leogrande, aveva pubblicato con Andrea Segre e Dagmawi Yimer una lettera aperta per disertare il bando per “migliorare le condizioni” dei campi di internamento in Libia per rifugiati e profughi.

«Martedì 29 novembre – aveva scritto Leogrande con Andrea Segre e Dagmawi Yimer – a mezzanotte scade il termine per partecipare al bando con cui il governo italiano finanzierà progetti di «primissima emergenza a favore della popolazione dei centri migranti e rifugiati» in Libia. Le Ong italiane possono accedere a un finanziamento totale di 2milioni di euro, destinati a migliorare gestione e condizione di tre “centri migranti e rifugiati” dove “risiede parte della popolazione migrante mista in Libia”. Si tratta a nostro avviso di un bando offensivo e vergognoso per almeno tre motivi: Quei centri non sono «centri migranti e rifugiati» ma sono veri e propri «campi di concentramento», come ampiamente documentato da ormai decine di media e organizzazioni di tutto il mondo. La definizione che il bando governativo ne dà (appunto «centri migranti e rifugiati») è talmente inesatta e ipocrita da usare il termine rifugiati in un Paese dove questa categoria non può esistere, perché non riconosce la Convenzione di Ginevra.

L’intervento è previsto in «centri» dove (lo dice il bando stesso) la capacità di effettiva sorveglianza delle autorità ufficiali libiche è «in molti casi limitata», perché in realtà sono “gestiti da milizie locali”.

Le Ong italiane non hanno alcuna possibilità di agire in quei campi se non previo accordo con le milizie stesse, che ne gestiranno modalità di azione e relativo budget. Il tutto serve a un’operazione d’immagine per raddolcire o addirittura coprire le conseguenze disumane e raccapriccianti delle misure di blocco e respingimento dei migranti messe in atto da Italia e Europa a partire da agosto scorso, costate per altro 100 volte di più di queste misure di «primissima emergenza». Tutto ciò è inaccettabile».

Di questo e altro ancora avrebbe voluto parlare Alessandro Leogrande il prossimo 3 dicembre a Roma, al Forum “Per cambiare l’ordine delle cose”, a cui hanno aderito più di 700 persone da oltre 120 città d’Italia.

Scarpe Rosse

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Ieri, 25 novembre, l’attenzione di Istituzioni e società civile si è concentrata sul più vile ed inaccettabile dei crimini, che non trova una sintesi nella violenza in se stessa ma va ricondotta dentro i confini della sopraffazione, di una idea di superiorità presunta fuori da ogni logica che possa condurre al rispetto per l’altro/a.

Ci sono circostanze che inducono all’elaborazione di pensieri estremi che si alternano fra l’idea che la morte cancella qualsiasi dolore e quella che ci sono dolori che segnano la vita in maniera irreversibile.

Ed è dalla irreversibilità che voglio iniziare questa riflessione.

Una bambina di soli 11 anni, accompagnata dai genitori che avevano notato uno strano gonfiore della pancia ed una sintomatologia strana, risulta essere incinta. E’ successo a Torino, 10 giorni fa.

L’orco, anche in questo caso, è risultato essere il vicino di casa che godeva della piena fiducia dei genitori della bambina costretta ad avere rapporti sessuali.

11 anni e una vita già segnata dalla brutalità degli abusi: non esiste alcuna pena per quel mostro che potrà restituire a quella bambina la fiducia nell’altro, chiunque esso sia.

La violenza sulle donne è tra le violazioni dei diritti umani più diffuse al mondo: violenza sessuale, stupro, violenza psicologica.

In Italia e nel mondo subisce violenza, mediamente, una donna su 3 dai 15 anni in sudentro le mura domestiche, sul posto di lavoro, per strada. Ovunque.

E abbiamo sotto gli occhi un dato che ci deve far riflettere: il 53% delle donne in tutta l’Unione Europea afferma di evitare determinati luoghi o situazioni per paura di essere aggredita. Una palese e inaccettabile limitazione della libertà!

Ma sono spesso i partner o ex partner a commettere gli atti più gravi: in Italia sono infatti responsabili del 62,7% degli stupri.

Mi piace, però, riprendere una bella iniziativa di qualche mese fa che ha trasformato quello che siamo abituati a catalogare come mercificazione del corpo femminile in un atto di denuncia diretto, profondo, mediaticamente ineccepibile.

Durante la sfilata di presentazione per eleggere Miss Perù, le ragazze partecipanti al concorso hanno lanciato un messaggio contro la violenza sulle donne: anziché i propri centimetri, hanno comunicato i dati sugli abusi e alla loro campagna si sono uniti anche gli organizzatori del concorso.

Le mie misure sono: 2.202 casi di femminicidio registrati negli ultimi nove anni nel mio Paese“. Camila Canicoba, aspirante Miss Perù 2018, è la prima a presentarsi sul palco della finale a Lima. Lo fa scegliendo di non far sapere al mondo quale sia la circonferenza della sua vita o del suo seno. Ma quante sono le donne che sono state uccise in Perù dal 2008 a oggi. E non è l’unica. Lo hanno fatto tutte le concorrenti!

La vincitrice del concorso di quest’anno è stata Romina Lozano e le sue misure sono: “3.114 donne vittime di tratta fino al 2014“.

Non esiste un commento possibile, necessitano, piuttosto, azioni radicali e urgenti.

C.P.R. di Bari

C.P.R. di Bari

Nuova sfida per “Costruiamo Insieme”

Diverse le attività all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri. Attività assegnata dalla Prefettura. Assicurate assistenza sociale, sanitaria, psicologica. Gestione amministrativa, servizi, tutela della persona, schede individuali, presenza di mediatori e personale medico.

C’è un altro grande progetto che richiede l’impegno di “Costruiamo Insieme”: il CPR di Bari con sede in zona San Paolo. Come per altre strutture nella quale la cooperativa è impegnata per seguire nel suo complesso il Centro di permanenza per i rimpatri, l’organizzazione chiamata a svolgere molteplici attività seguirà questo nuovo impegno con la massima professionalità. Dopo la presentazione di proposte articolate e circostanziate, questa nuova attività nel campo dell’accoglienza, le è stata assegnata dalla Prefettura di Bari, Ufficio territoriale del Governo.

E’ un altro significativo traguardo raggiunto all’interno di un processo di crescita registrato in modo esponenziale in quattro anni di attività. A cominciare dalle figure professionali, che in questo lasso di tempo hanno raccolto da parte delle istituzioni stima e riconoscenza per la gestione di un tema, quello dell’immigrazione, sul quale non molti vantavano grande conoscenza.

In questi anni, dunque, la cooperativa non solo ha maturato professionisti dell’accoglienza, ma ha ampliato la sua macchina organizzativa della quale oggi fanno parte decine di operatori che svolgono attività lavorativa secondo i criteri prestabiliti in questo settore.

DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

All’interno di questa articolata macchina organizzativa, è dunque entrato a farne parte il Centro di permanenza per i rimpatri. Ciò significa che “Costruiamo Insieme”, fra le altre cose, si occuperà nel caso specifico di introdurre quelle misure necessarie affinché vengano rispettati i diritti fondamentali della persona. Massima considerazione, pertanto, per i soggetti interessati dai servizi secondo quanto attiene provenienza, fede religiosa, stato di salute fisica e psichica, differenza di genere, identità compresa.

La cooperativa assicurerà, inoltre, i servizi essenziali per l’accoglienza, come quelli relativi alla fornitura di pasti, vestiario, prodotti per l’igiene personale, generi di conforto, servizi di pulizia, di gestione amministrativa, servizio di mediazione linguistica-culturale, informazione, assistenza sociale, psicologica e sanitaria, sempre secondo quanto previsto del Regolamento unico CPR (ex CIE, già Centri di identificazione ed espulsione).

ASSISTENZA SANITARIA (E LINGUISTICA)

Dalla Gestione amministrativa al Servizio di assistenza. Altra attività importante, quella che prevede la mediazione linguistico-culturale (assicurando la presenza di un numero adeguato di mediatori). Ciò per garantire la copertura delle lingue parlate dagli stranieri presenti nel Centro, al fine di consentire con questi massima comunicazione a partire dal loro ingresso e per tutta la durata della permanenza nel Centro. Infine, ma non ultima, l’Assistenza sanitaria. Altro impegno, a tutto tondo, per assicurare un costante controllo con personale medico e una scheda sanitaria dalla quale risultino farmaci somministrati, vaccinazioni e altri elementi utili a tracciare il profilo degli stranieri ospitati all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri.

Un impegno articolato, come si evince dalla serie di impegni assunti da “Costruiamo Insieme”, che potrà solo confermare la professionalità di un progetto e di persone che in questi anni si sono spese con responsabilità per conseguire obiettivi di enorme prestigio. Parte un nuovo viaggio all’interno della macchina dell’accoglienza, la cooperativa con all’attivo grandi soddisfazioni professionali, saprà farsi trovare pronta.

 

Mamadoudiao, Le mie prigioni

Ventuno anni, arriva dalla Guinea. In Libia, fermato, imprigionato, picchiato. Dimentica le cicatrici e sogna. «Commerciavo in tabacchi e dolciumi, un giorno vorrei aprire in negozietto in Italia».

WhatsApp Image 2017-11-23 at 15.05.21«Una pietra stretta in un pugno e giù botte, ovunque capitasse!».Mamadoudiao, spiega le sue prigioni. Un po’ con il suo italiano scolastico, un po’ a gesti. Mostra la testa, scava con le mani fra i capelli. Cicatrici impressionanti. Non è l’unico, non sarà nemmeno l’ultimo a farci vedere testimonianze di un dolore non solo fisico. Ma quando fuggi – lui ha lasciato la Guinea – e arrivi in Libia, c’è poco da fare. Non eviti la prigione, dura, tantomeno le botte. Pietra viva, tutta spigoli; e calci, non «carezze», sferrati con violenza, ora con la punta, ora con il tacco; così forti da farti uscire sangue e ricordarti che puoi già ritenerti fortunato. La tua vita vale meno di mille euro: se i tuoi familiari, bene, altrimenti meglio rassegnarti a ogni tipo di tortura.

«Non c’era orario, quando dovevano darti una “lezione”, perché prima o poi arrivava il tuo turno: non ti svegliavano nemmeno, te lo ricordavano in pieno sonno che avevi con loro avevi un debito: millecinquecento dinari, poco più dei vostri novecento euro, per noi già una piccola fortuna; a volte non comprendevi nemmeno se fosse realtà o, purtroppo, incubo: era un incubo…».

Mamadoudiao ci tiene al suo nome per esteso. Proviamo ad abbreviarlo, ma lui chiede gentilmente un attimo la penna e completa. Arriva da Frua, «una cittadina, non tanto grande, non tanto piccola», qualcosa che somiglia a uno di quei nostri comuni che per un pugno di abitanti non fa ancora provincia. «Lì ho lasciato una sorella più grande e un fratello più piccolo».

Piccoli risparmi investiti in una ricarica telefonica. L’unico filo che unisce Mamadoudiao al suo passato, il cellulare, le conversazioni con quello che resta della sua famiglia. «Ci sentiamo ogni tanto – spiega – per raccontarci come va la vita lì e come, a me, va qui». Quando parla dell’Italia, lo fa lentamente, vuole spiegarsi bene, ha solo parole di elogio. «Qui è un’altra cosa, non sto da molto in Italia, ma è come se ogni giorno vedessi il sole, anche quando piove». Anche per lui, ventuno anni, il sole è vita. Non disdegna la pioggia, però. Indossa un giubbotto impermeabile azzurro. Stringe un ombrello pieghevole. «Non appena vedo due gocce lo porto con me, mi tiene compagnia: la pioggia dalle mie parti è benessere, ne sanno qualcosa i raccolti che sfamano tutti noi…». Torniamo ai suoi fratelli. «Mia sorella è stanca della vita a Frua, anche lei vorrebbe andare via da lì, ma per le donne è più complicato: non voglio pensare cosa possa accadere al suo arrivo in Libia, passaggio obbligato per chi, come noi, per sognare la libertà deve attraversare Mali, Burkina Faso e Niger…».sfondo-storie-5-2

E Libia, uno spettro. Non solo per Mamadoudiao. «Sono stato un anno lì, non facevo in tempo a mettere insieme un po’ di soldi presi per mille lavori fatti, che subito mi toglievano quel piccolo, misero guadagno: mendicavo le pulizie, chiedevo se per qualche spicciolo potessi lavare una vetrina, un’auto; è così che ho messo insieme quei millecinquecento dinari libici per pagarmi il viaggio per l’Italia».

In Guinea, nonostante la sua giovane età, faceva il commerciante. «Non un vero locale con tanto di espositori per la merce, anche se la mia attività aveva il suo piccolo decoro: vendevo tabacchi e dolciumi, come, vedo, fanno in Italia: chi vende sigarette, vende anche dolciumi». Un desiderio. «Se non è vietato sognare, un giorno mi piacerebbe avere un negozietto tutto mio, aprirlo qui in Italia, a Taranto o altrove, non so, ma se un giorno riuscissi nell’impresa per me sarebbe qualcosa di magico: riuscire a ricostruire con sacrifici quello che  facevo nel mio Paese…».

Perché tabacchi e dolciumi. «Da piccolo amavo i dolciumi – conclude Mamadoudiao – sognavo scorpacciate di caramelle e liquirizia; mai abusato di una sola caramella, nemmeno da commerciante, ma penso che il profumo dei dolciumi mi abbia sempre dato l’idea del benessere, del superfluo: potresti farne a meno, perché è solo un capriccio, invece ne mangi per goderne; mi accontento di poco? Forse perché da noi il poco è così tanto…».

E’ già aria di Natale…

Santa Cecilia, è l’alba. “Costruiamo Insieme” invita una banda musicale. Pettole per tutti. Un inatteso e graditissimo “regalo” per i tarantini legati alle tradizioni.

Articolo-banda-04Santa Cecilia, 22 novembre, cinque del mattino, una sorpresa musicale per molti dei ragazzi ospiti della sede di “Costruiamo Insieme” di via Cavallotti a Taranto. La banda musicale diretta dal maestro Berardino Lemma esegue novene per la gioia di tutti. Residenti compresi, questi ultimi favorevolmente sorpresi per l’inatteso regalo.

E’ l’alba quando uno degli operatori del Centro di accoglienza spalanca il portone e il cuore per accogliere la ventina di musicisti che intona marce già celebri ai tarantini da sempre legati a questa tradizione. E’ un momento di grande emozione. I ragazzi ospiti del “Centro”, escono sui balconi, unendosi idealmente ai cittadini scesi in un baleno dalle proprie abitazioni. Qualche anziano, a causa del freddo del primo mattino, si chiude in un giaccone, preferisce  osservare l’evento dall’alto. E’ l’abbraccio ideale fra genti. I migranti alla ricerca di speranza e calore; i tarantini, lo stesso, ad invocare speranza, ma anche un futuro migliore, per allontanare una crisi che parte da lontano, da una industria che deve assicurare, insieme, lavoro e salute.

Articolo-banda-01

E’ cominciato il Natale. All’interno della sede, l’albero di Natale addobbato quasi a tempo di primato perché fosse già pronto per l’inizio delle festività che, com’è noto, da queste parti cominciano con largo anticipo. Il giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre, è lontano più di due settimane, ma qui il profumo delle pettole racconta già un’altra storia. Gli odori del fritto hanno cominciato a sprigionarsi nell’aria: siamo ufficialmente nel Natale tarantino. E non solo, posto che in provincia e nel resto della Puglia, ognuno introduce il “suo” Natale secondo le proprie tradizioni.

Articolo-banda-03

Qui sono cominciate all’alba. In alcuni quartieri anche prima. Quando è ancora buio, già riecheggiano i profumi del fritto e, nel silenzio, i rumori delle portiere delle auto dalle quali escono i musicisti. Due minuti, il tempo necessario per sistemare la divisa e disporsi sul marciapiedi, all’ingresso della sede di “Costruiamo Insieme”, via Cavallotti 84. Il maestro Lemma, come da tradizione tramandata dal suo papà, famoso artigiano e fondatore di una delle bande musicali più celebrate nel Tarantino, dà il segnale ai suoi musicisti.

Articolo-banda-02

E’ un attimo, dalle abitazioni vicine, si aprono porte e finestre, il Natale passa anche da qui. Dal cuore dei ragazzi che vogliono integrarsi, accorciare le distanze con il territorio, cominciando da un gesto semplice. «Cosa possiamo fare – si chiede qualcuno di loro – per far comprendere ai tarantini che non siamo, né vogliamo essere un corpo estraneo di questa comunità?». Si documentano, si consultano i ragazzi dalla pelle scura e dal cuore candido. A Taranto il Natale comincia prima: quei dolci, fritti e conditi con un cucchiaino di zucchero, dal nome e dall’accento strano, le pettole; le novene eseguite dalle bande musicali che introducono alla festa più lunga dell’anno. Così gli ospiti del Centro mettono insieme le due cose, musica e “pettole”, ne parlano con gli operatori che trasferiscono questo desiderio alla direzione. Detto, fatto.

E’ l’alba, Santa Cecilia, un “Benvenuto” alle feste natalizie. Con tutto il cuore, dai ragazzi di via Cavallotti.

Costruiamo un Albero

Nelle sedi della cooperativa tre metri di originalità. Luci e idee per raccogliere il maggior numero di “mi piace”. La gara è aperta, buon divertimento.

WhatsApp Image 2017-11-20 at 22.22.16Alberi di Natale, ciascuno alto tre metri, da allestire con la fantasia. Oggi il via a una gara fra le diverse sedi di “Costruiamo Insieme”. A Taranto, Bitonto, Modugno e Bari, i ragazzi hanno cominciato a scatenarsi per l’addobbo più originale da sostenere con l’ausilio di “like”. Tanti “mi piace” indicheranno “l’albero più bello”, tanto più facile sarà vincere una competizione gomito a gomito durante l’intero ciclo di festività.

Start il 22 novembre, giorno di Santa Cecilia. E’ l’ngresso, come dire, ufficioso nelle feste che portano al Santo Natale. Da queste parti è consuetudine anticipare l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, con un’altra festività altrettanto importante in fatto di tradizioni. Una su tutte, la veglia per le pettole e le prime bande musicali che girano per i quartieri. Insomma, si sprigionano suoni e profumi che introducono al periodo di festa più lungo dell’anno.

Dunque, anche quest’anno la cooperativa “Costruiamo Insieme” ha voluto lanciare un segnale importante per avvicinare gli ospiti dei diversi Centri di accoglienza. Anche se di diverso orientamento religioso, i ragazzi in queste ore si stanno raccogliendo insieme per studiare il modo più originale per arricchire i rami del proprio albero di Natale. Fra le idee, catturate un po’ qua e un po’ là, si fa spazio l’arricchimento del proprio “elaborato” con manufatti artigianali. Dunque, bene le serie di luci, meglio ancora se queste faranno solo da corollario a intuizioni, ninnoli a corredo dai rami più bassi per arrivare al punteruolo in cima all’albero.

Albero-01

Nelle diverse sedi della cooperativa i ragazzi hanno preso sul serio la divertente gara lanciata dalla direzione. Viaggiano a velocità inaudita i messaggi, le foto e le “provocatorie” (e divertite) espressioni sui social, fra questi Facebook e Whatsapp, che in queste ore la fanno da padrone. Per una volta quel “costruire insieme” viaggerà su binari separati, ognuno per sé a realizzare l’opera più brillante e originale per raccogliere il maggior numero di “mi piace” e vincere la competizione natalizia che finirà come sempre con una megafesta. Intanto, buon divertimento. Vinca il migliore, possibilmente il più originale!

“Patti disumani”

L’inaccettabile situazione in Libia.

Visitare il campo di concentramento di Auschwitz rappresenta, ancora oggi, una meta per quelle che sulla carta sono definite visite di istruzione scolastica ma che gli studenti, i ragazzi, percepiscono come gita, svago, divertimento, momento allegro e conviviale. Visita di istruzione, la chiamano, per toccare con mano il passato studiato sui libri, in classe.

Fare un salto nel passato per capire un presente che hai sotto occhi che rifiutano di vedere è uno stupro all’intelligenza collettiva.

Sono pronto a scommettere che nel 99,9% delle scolaresche che si stanno attrezzando per organizzare le “visite di istruzione” non si è spesa una parola, non si ha conoscenza della tragedia che si sta consumando in Libia.

Eppure, questa volta, a parlare, a denunciare, non siamo noi che, ascoltando le storie dei migranti, da tempo denunciamo questa situazione che va oltre qualsiasi scenario immaginabile: lo fa, anche in maniera dura e diretta, l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ràad Al Hussein definendo disumani gli accordi stretti fra la Comunità Europea (con in testa l’Italia) e la Libia per contenere il flusso migratorio chiudendo la rotta del Mediterraneo centrale.

Quella che era una situazione già disperata, ora è diventata catastrofica e la comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi davanti all’inimmaginabile orrore patito dai migranti in Libia” ha dichiarato Al Hussein che ha parlato di “migliaia di uomini, donne e bambini emaciati, ammucchiati gli uni sugli altri, chiusi in hangar senza nessun accesso ai servizi più essenziali, privati di ogni dignità umana e esposti a traffici, rapimenti, torture, stupri, lavori forzati, fame”.

Patti disumani, sottoscritti e finanziati per rincorrere una realtà che la cecità, l’incapacità di guardare in prospettiva, l’estraneità e la lontananza dai processi in atto, ha trasformato in emergenza.

Volendo fare una fotografia della situazione attuale sembra che chi decide oggi le strategie per contenere, piuttosto che affrontare e confrontarsi con una realtà che affonda le radici nella storia come quella dei flussi migratori, sia fuori dalla storia o ripeschi dalla storia modelli che immaginavamo superati, cancellati, catalogati come inaccettabili, inconcepibili, frutto di menti distorte.

Invece, riecco i lager, i campi di concentramento, le torture.

E, siccome ormai non ci facciamo mancare niente, assistiamo inermi anche alla tratta, la vendita di bambini, di uomini e di donne documentata in questi giorni dalla CNN.

Definire tutto questo disumano è una maniera troppo garbata per circoscrivere una realtà che ci riporta indietro di secoli.

Mi sembra di essere tornato bambino appassionato alle vicende di Kunta Kinte nella serie televisiva “Radici”.

http://edition.cnn.com/2017/11/14/africa/libya-migrant-auctions/index.html

L’educazione all’accoglienza

L’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, si pronuncia sull’ospitalità dei migranti. «Non sia un momento di emergenza», dice, «dobbiamo spalancare il nostro cuore».

Eccellenza, quando parla di migrazione pone l’accento sull’educazione all’accoglienza”.

Intervista Santoro 4Dobbiamo impegnarci a fare in modo che l’accoglienza non sia il gesto di un momento di emergenza, bensì l’atteggiamento della  nostra vita: quando vediamo un bisognoso, che sia un familiare, un vicino, un estraneo, qualcuno che bussa alla nostra porta – sempre nel rispetto delle nostre possibilità – abbiamo il dovere di spalancare il nostro cuore.

Educare ad aprirsi agli altri, questo l’insegnamento principale. Quando ero piccolo, mia madre mi diceva di fare aspettare i compagni di gioco e andare a visitare la zia ammalata, la vicina bisognosa di conforto: superate le prime comprensibili resistenze, considerando la mia giovane età, capii che era la cosa giusta da fare. Questo insegnamento mi è tornato utile, qui in Italia, come in Brasile, dove sono stato ventisette anni. Aprirsi alla gente bisognosa: è il Signore a volerlo; ti provoca, ma poi ti dona gli strumenti di fede per comprendere quanto sia fondamentale aprirsi agli altri.

I migranti, ha detto, non sono una minaccia, bensì una risorsa.

I nostri connazionali sono stati fra i primi a trasferirsi all’estero per necessità: Nord Europa, Stati Uniti, Australia, America del Sud, dal Brasile all’Argentina. Io stesso, da studente, andavo in Germania nei mesi estivi, lavoravo e studiavo: imparavo la lingua, utile per i miei studi di teologia e, allo stesso tempo, per mettere soldi da parte per proseguire il mio percorso religioso. Alla stazione di Stoccarda incontravo tanti italiani, soffrivano la nostalgia; ma venivano accolti con grande rispetto, lavoravano e realizzavano opere importanti. Con il nostro impegno abbiamo contribuito non poco alla crescita civile e culturale degli altri Paesi. Ecco perché i migranti non sono una minaccia, ma una risorsa nella costruzione del cammino comune. Non sia accoglienza indiscriminata, ma ragionata, accompagnata dal rispetto delle regole, senza chiudersi a quel “prossimo” che un tempo è stato l’italiano.

L’importanza di cooperative, associazioni che fanno accoglienza.

Le organizzazioni importanti che svolgono questo tipo di attività mettono a disposizione della comunità le proprie capacità professionali per accogliere e sviluppare percorsi attraverso i quali permettere a questa gente di integrarsi attraverso conoscenza e lavoro; seguire corsi per panettieri, cuochi, pasticceri, pizzaioli; fare in modo che impari la lingua, cultura e storia del Paese che li ospita.

La disponibilità dei tarantini verso i migranti.

Qualche tarantino agli inizi faceva appello ai problemi del territorio, “abbiamo tanti guai noi…”, diceva, ma presto ha compreso quanto fosse importante collaborare, sviluppare l’apertura all’accoglienza che nell’animo del tarantino esiste ed è forte.

Foto-articolo

Il contributo della chiesa a Taranto.

Detto della donazione delle Carmelitane del convento di Poggio Galeso alla diocesi, che a sua volta lo ha messo a disposizione dei migranti, domenica 19 novembre inauguriamo il Centro di accoglienza notturna San Cataldo per i “senza fissa dimora”. Dunque, una struttura per i migranti e una per i nostri poveri.

Sia chiaro, non ci sostituiamo a Comune e istituzioni, ma abbiamo voluto dare il nostro contributo. Parrocchie, confraternite, sacerdoti, comunità, hanno partecipato in concreto al restauro di un bene del ‘700: anche i poveri hanno diritto alla bellezza.

Cosa ha chiesto nel suo primo incontro a Rinaldo Melucci, sindaco di Taranto.

Dare speranza alla città con fatti concreti, relazionarsi con interlocutori seri, dalla Regione al Governo; far sentire la propria voce con maggiore insistenza, stiamo giocando la partita decisiva nel futuro di Taranto, il tempo è scaduto: le parole devono lasciare spazio ai fatti in concreto. Mi ha confermato massimo impegno per lavoro e ambiente, fra i principali temi che gli stanno a cuore.

C’è chi la considera ancora qualcosa di simile alla figura di un sindaco o un dirigente del Centro per l’impiego.

A ognuno il suo. Accoglienza e ascolto fanno parte della mia missione, la gente viene a trovarmi, mi parla dei suoi problemi, poi inevitabilmente si tocca il tasto del lavoro e della salute, figlio disoccupato e figlia malata per intenderci. E io ho il dovere di accogliere, ascoltare e confortare, indicare la strada se possibile.

Nei giorni scorsi sono stato a Cagliari in occasione della “Settimana sociale dei cattolici italiani”. Quest’anno al centro degli incontri, il tema principale era quello riservato al lavoro. Il compito della chiesa è aprire percorsi, non a caso abbiamo pensato a una struttura come la “Pastorale sociale” che avrà il compito di fornire orientamento sulle politiche del lavoro, per dare dignità e non assistenzialismo; non basato sul “compra e consumo”: il lavoro deve stare al centro della produzione, non ci sono altre strade per rilanciare la struttura economica del Paese.

Foto-articolo-2

A Cagliari ha incontrato Gentiloni, presidente del Consiglio. Pare non le abbia mandate a dire.

In qualità di presidente del Comitato, sono intervenuto durante i lavori. “Vengo da Taranto”, gli ho detto, “facciamo in modo che abbia fine una buona volta la devastazione ambientale di un territorio e che gli sia garantito il lavoro: numeri impensabili sugli esuberi, massima tutela dei diritti e salvaguardia dell’indotto”. Mi ha assicurato massimo impegno, tocca a loro, alla politica sciogliere i nodi del lavoro e dell’ambiente a Taranto.

Festività natalizie. Migranti e preghiera, rinnova l’appello al rispetto della preghiera e delle religioni.

E’ alla base della civiltà. La nostra parte l’abbiamo sempre fatta, partiamo con Santa Cecilia, le Pastorali, le nostre preghiere al convento di Poggio Galeso; lì abbiamo già invitato i musulmani a recitare il Padre nostro, che nella loro dottrina fa riferimento ad Abramo. La libertà più grande è proprio questa: accogliere e consentire all’altro di pregare il suo Dio.

Dovesse confessare una “benedizione”.

E’ successo in Brasile, ma anche qui in qualche occasione qualche “benedizione” l’ho mandata. In Brasile, durante la Processione delle palme, in una favela. Davanti a un bar, “padroni del traffico” ostentavano le armi nella cintura: mi staccai dalla processione, entrai nell’esercizio e chiesi chi fosse il capo invocando il rispetto per la Chiesa: quello che sembrava il “boss”, invitò gli spacconi a fare sparire le armi.

A Taranto, ho perso la pazienza quando ho avuto la sensazione che non tutti prestassero attenzione alla nostra città; andai perfino a Roma per farmi sentire: viviamo nel dramma e la politica deve assicurare una cosa e l’altra, lavoro e salute!