Sfondo StorieSambou, gambiano, ricorda una tragedia del mare. «Ottanta persone inghiottite dalle acque; salvo per miracolo, ho lasciato il mio Paese a causa di una malattia respiratoria»

«Perfino in Libia mi hanno gettato per strada, i militari non volevano saperne di prendersi cura di me!». Sambou, ventiquattro anni, da un paio in Italia, è scappato dal suo Gambia per curarsi da un grave problema respiratorio. Non solo, «ho visto scomparire fra le acque decine di miei connazionali, imbarcati su un gommone poco distante dal mio: una visione che non potrò mai cancellare dalla mia mente!».

Oggi Sambou, professione elettricista, è ospite di un Centro di accoglienza straordinaria della cooperativa “Costruiamo insieme”. «Nessuno sapeva di preciso cosa avessi – ci spiega – la ripresa era lenta, i medicinali per combattere il declino di una malattia che avanzava implacabilmente costavano tanto, così l’unica strada possibile era venire via da lì, a costo di lasciare la mia famiglia, i miei amici».

Il Gambia è un Paese che il ventiquattrenne africano sente ancora sulla sua pelle. Ma ha dovuto però rinunciarvia, a malincuore. Per il suo bene. «Motivi di salute – insiste – avvertivo qualcosa che mi lasciava sempre più spesso senza fiato; quando seguivo le prescrizioni del medico con medicinali che costavano tanto per le nostre disponibilità economiche, mi sentivo appena meglio; poi non avevo più i soldi: niente cure e daccapo il lento declino, un incubo».

La scomparsa del papà cambia la vita

Anche la morte del papà cambia la sua vita. «Mia madre si risposa – dice Sambou – io per la nuova famiglia era come se fossi un peso grave, costavo più di quanto non costasse sfamare una intera famiglia per giorni, così ho preso coraggio, le mie ultime forze e sono andato via».

Un viaggio che dura mesi. «Circa sette, forse meno; forse più, ma quanto dolore! Chiedevo aiuto per le strade, quel poco che raccoglievo mi serviva più per comprare medicinali che sfamarmi; mi rimettevo in piedi e pensavo all’Italia, a un Paese ospitale, a un letto di ospedale nel quale curarmi».

La storia non finisce in un amen. Tutt’altro. «Arrivo in Libia – ricorda per noi Sambou – non ho più soldi in tasca, sono in piena crisi, i militari mi portano in prigione, mi tengono un mese; le mie condizioni peggiorano a vista d’occhio, così si tolgono il pensiero: un brutto giorno mi prendono per braccia e gambe e mi gettano sul ciglio di una strada; passo una notte fra i dolori causati dalla caduta, poi il mattino seguente mi trascino fino a trovare qualcuno che mi porti al porto di Gallipoli, l’omonimo porto pugliese che però è in Libia, destinazione Taranto; non mi sembra vero, ci sono due gommoni grandi, possono portare a bordo trenta persone, quaranta al massimo; invece uno ne ospita 130 e un altro, il mio, 116: abbiamo netta la sensazione che non ce la faremo mai, ma invochiamo il cielo, preghiamo, ognuno come sa e come può».

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Un gommone scompare, ottanta morti

I due gommoni si perdono di vista, ogni tanto in lontananza Sambou scorge quello con a bordo centotrenta persone, fra queste diverse le donne incinte. «E’ un momento – ricorda con un nodo alla gola – e vediamo gente in mare: urla, chiede aiuto, noi intanto siamo in balia di un gommone ingovernabile; uomini e donne con bimbo in grembo vengono risucchiati dalle acque agitate, è uno sterminio; arriva la Guardia costiera, noi del gommone con a bordo 116 persone veniamo tratti in salvo; poi i militari si dedicano ai superstiti dell’altra imbarcazione, ne tirano su a decine, ma sempre pochi rispetto a quella moltitudine: cinquanta in salvo, ottanta i morti!».

Una tragedia, il pianto. «Vedere le donne incinte e prive di vita galleggiare, è una scena che non dimenticherò mai; ma non voglio nemmeno cancellarle quelle immagini dalla mia mente, mi serviranno ad avere rispetto della vita e nella memoria gente che, come me, cercava una via di fuga dalla miseria e dal dolore».

Adesso Sambou sta meglio. «Sono in via di totale guarigione – conclude – qui godo della massima assistenza sanitaria, è stata dura, mi sto riprendendo grazie al cielo; sento ogni tanto mia madre, familiari e amici; un giorno mi piacerebbe aprire una piccola attività commerciale, ma è un sogno: ho già avuto tanto dalla vita, la salute e il destino di avercela fatta, cosa posso volere di più?».